IL LUTTO

Il vocabolario della lingua italiana definisce il lutto (dal latino luctus, pianto, dal tema di lugere, piangere ed essere in lutto) come un cordoglio per la morte di qualcuno; il termine cordoglio deriva dal latino cordolium, composto da “cor”, cuore, e “dolere”, provare dolore: profondo dolore provocato da un lutto .

Il termine è stato introdotto in psicoanalisi nella traduzione dell’opera originaria di Sigmund FreudLutto e melanconia, dove lo studio del processo del lutto avveniva attraverso lo studio della depressione negli adulti. In questo scritto Freud chiarisce l’origine della malinconia come condizione psicopatologica, riporta le sue principali riflessioni sul lutto e sulla differenza tra lutto normale e lutto patologico. Egli scrive che il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona umana o di un’astrazione che ne ha preso il posto, (come la patria, la libertà o un ideale), e che quando in alcuni individui questa perdita assume caratteristiche di una specifica disposizione patologica, allora il lutto si declina nella melanconia.

Si tratta in entrambi i casi di una perdita dell’oggetto d’amore ma che, nel caso della melanconia, questa perdita ha risvolti patologici in quanto il naturale processo del lutto viene sottratto alla coscienza. Freud precisa che nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso; nel processo del lutto dunque, la perdita riguarda l’oggetto, ma nella melanconia sembra riguardare, da ultimo, il soggetto stesso. Successivamente, la psicoanalisi ha tentato di utilizzare i meccanismi che Freud attribuiva solo all’eziopatogenesi della melanconia e al lutto patologico anche per spiegare il lutto normale.

John Bowlby (1983) afferma che è corretto utilizzare il terminelutto per indicare tutti quei processi psicologici, consci o inconsci, che vengono suscitati dalla perdita di una persona amata, a prescindere dall’esito finale, se patologico o normale. Il lutto così concepito descrive il dolore, più o meno esplicito, che una persona prova nel vivere un’esperienza di perdita. In questi casi, per esempio, il termine lutto potrebbe essere sostituito da altri di uso comune come “cordoglio” o “afflizione”, per indicare quell’insieme di reazioni, pensieri e stati d’animo che caratterizza chi si trova ad affrontare una malattia grave o terminale che vede allontanarsi all’improvviso beni irrinunciabili come la salute, la libertà, l’autonomia, il benessere, la tranquillità, la spensieratezza, la pace e che minaccia il proprio futuro .

La presenza di un evento di perdita, l’insieme delle reazioni personali alla perdita, gli aspetti socio-culturali che costituiscono lo sfondo dell’evento e che contribuiscono a modificarne le caratteristiche. L’esperienza di perdita è vissuta diversamente da individuo a individuo e perciò può risultare scorretto, da un punto di vista clinico, giudicare come patologiche le reazioni psicologiche di un soggetto nelle prime fasi del lutto. È utile, invece, riconoscere le differenze in ogni individuo in termini di intensità e durata del fenomeno e considerare anche il gruppo culturale di appartenenza

Il luttorappresenta una risposta naturale a un evento di perdita che le persone possono sperimentare varie volte nell’arco della propria vita, che si manifesta attraverso un profondo dolore per la scomparsa o per la perdita di qualcosa o qualcuno al quale si era legati in modo particolare e costituisce una delle modalità psichiche con la quale l’individuo si trasforma dopo aver subito una perdita. Il vissuto di perdita è sempre correlato ad un dato di realtà, qualunque sia la natura dell’oggetto perduto o il significato che l’individuo gli attribuisce e costituisce un’esperienza al limite: quando si verifica ci lascia senz’aria come se si dovesse morire insieme alla persona perduta; ma se si torna poi a respirare significa che si è sopravvissuti e sopravvivere alla perdita equivale ad essere portatore di un trauma, che isola il dolore della perdita senza elaborarlo e che quindi tende a rinnovarsi in forme diverse

L’esperienza della perdita costituisce un passaggio universale sempre presente nel corso della vita umana e per l’uomo è estremamente dolorosa, in quanto lascia un senso di vuoto attorno al soggetto che lo costringe, inevitabilmente, a pensare ad un tempo in cui sarà la propria perdita a realizzarsi, a pensare il tempo della propria morte, o quello che precede la propria origine .

Il concetto di perdita è ormai entrato nel linguaggio comune come sinonimo di lutto, ma ciò in realtà è scorretto, poiché non tutti i lutti assumono il significato di una perdita. Le relazioni umane possono assumere forme diverse ed essere caratterizzate da diversi stati sentimentali in cui vi si possono soddisfare diversi bisogni tra cui: l’attaccamento, che soddisfa il bisogno di sicurezza e protezione, l’integrazione sociale e l’amicizia che soddisfano il bisogno di condivisione con l’altro, l’educazione che conferma come gli altri abbiano bisogno di noi, la rassicurazione sul valore, che attesta il valore dell’individuo, un senso di alleanza affidabile che assicura un’assistenza sicura e una guida, importante in ogni situazione di stress .

Si ha un lutto dunque quando si spezza un legame e di conseguenza si perde un tipo di relazione interpersonale e quando rimangono insoddisfatti i relativi bisogni. L’essere umano è portatore di diverse necessità e un modo per soddisfarle è quello di formare legami interpersonali, che possono essere dissolti con il conseguente dolore del lutto. Se si concepiscono i legami interpersonali come meri strumenti per la soddisfazione di bisogni, allora il lutto assume le caratteristiche di un processo psichico e biologico causato dalla perdita di uno di questi strumenti. Se gli altri risultano essere sempre dei mezzi, e non dei fini, con i quali si instaurano relazioni basate su bisogni reciproci, allora il lutto sarà sempre connotabile come perdita: quando un individuo muore o una relazione termina, si perde ciò che si possedeva per soddisfare questi bisogni. In questo senso, la morte di un proprio caro o la separazione da esso equivale ad una perdita della casa, del lavoro, di un ruolo o di una posizione sociale o economica . Al contrario, quando gli uomini stabiliscono invece relazioni basate sul desiderio dell’altro, anziché sul bisogno, allora l’identificazione del lutto con la perdita è solo parziale e non si può parlare di mancanza e di perdita. È evidente però, che i rapporti interpersonali basati esclusivamente sul libero desiderio dell’altro e non sul bisogno risultano essere meno diffusi e che, in generale, la perdita di una persona cara sottopone l’individuo ad un insieme di sentimenti luttuosi da superare.

LA DEPRESSIONE

La depressione, detta anche melanconia, è un’alterazione del tono dell’umore verso forme di tristezza profonda con riduzione dell’autostima e bisogno di autopunizione.

Le forme più frequenti di depressione fanno la loro comparsa dopo l’età media, quando diventa più difficile sperare nella vita perché il futuro è già in parte determinato dalle scelte compiute in precedenza.

Fasi depressive attraversano la vita di tutti gli uomini come episodi legittimi e comprensibili dove il soggetto è di solito consapevole di poterle superare da sé. Quando questa consapevolezza viene meno allora lo squilibrio depressivo assume caratteristiche psichiatriche che necessitano di un aiuto esterno.

Ci sono depressioni somatiche che hanno origine da malattie organiche e depressioni endogene che hanno una causa interna non organica e si dividono in monopolari, con fasi solo depressive, e bipolari con alternanza di fasi depressive e maniacali(euforia spiccata)

Infine abbiamo le depressioni psicogene che sono reattive ad un’esperienza vissuta come perdita: lutti, delusione amorosa, la frustrazione delle proprie aspettative, l’insuccesso nell’affermazione sociale.

Sintomi prevalenti sono: inappetenza, insonnia, diminuzione dell’interesse sessuale, tristezza profonda, senso di colpa,sentimenti di indegnità e autodisprezzo, perdita di iniziativa e progettualità, ideazione povera, pensiero rallentato, tendenza al suicido e desiderio di morte.

Il nucleo della depressione è formato da un’immotivata profonda tristezza alla quale si aggiunge un’inibizione di tutte le attività.

Il passato non passa mai e non concede al presente di accadere e al futuro di avvenire. La perdita di un amore, di una carriera… sono simboli di una perdita più ampia che è quella del presente e del futuro perché le dimensioni del passato si sono dilatate. Il presente diventa il tempo dell’incessante lamento, il futuro diventa l’ambito di vuote intenzioni.

In termini psicoanalitici si parla di melanconia come reazione alla perdita di un oggetto amato che non sia morto veramente ma che è andato perduto come oggetto d’amore a causa di una reale mortificazione o di una delusione subita dalla persona amata; questa relazione fu gravemente turbata. L’esito non è lo spostamento su un nuovo oggetto ma l’ utilizzo della melanconia per instaurare una nuova identificazione dell’io con l’oggetto abbandonato.

L’ombra dell’oggetto cade cosi sulla persona che finisce per giudicarsi come l’oggetto abbandonato. La perdita dell’oggetto diventa perdita dell’Io.

La melanconia sembra essere dunque una grave offesa all’autostima avvenuta nell’infanzia che ha minato la fiducia del soggetto in se stesso. Emerge un’ambivalenza tra il desiderio di distruggere gli oggetti interni da cui si è dipesi e l’impossibilità a sganciarsi da essi.

Secondo la Klein la depressione deriva dall’incapacità del bambino a collocare il suo oggetto buono e amato all’interno dell’Io. Questo determina un sentimento di cattiveria che non riesce ad essere protetto all’esterno e resta cosi incorporato nell’immagine di sé.

L’umore è generalmente flessibile: quando gli individui vivono eventi o situazioni piacevoli, esso flette verso l’alto, mentre flette verso il basso in situazioni negative e spiacevoli. Chi soffre di depressione non mostra questa flessibilità, ma il suo umore è costantemente flesso verso il basso, indipendentemente dalle situazioni esterne.

Non a caso, dunque, chi presenta i sintomi della depressione mostra frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza, tendendo a non provare piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone che soffrono di depressione vivono in una condizione di costante malumore e con pensieri negativi e pessimisti circa sé stessi, gli altri e il proprio futuro.

Altri importanti elementi che caratterizzano il disturbo sono:

  1. Una specifica alterazione dell’umore: tristezza, solitudine, apatia.
  2. Un concetto di sé negativo associato a rimproveri e auto-colpa.
  3. Desideri regressivi e auto-punitivi: desideri di fuggire, nascondersi o morire.
  4. Cambiamenti vegetativi: anoressia, insonnia, perdita di libido.
  5. Cambiamento nel livello di attività: ritardo o agitazione.

In generale,sentirsi depressi significa vedere il mondo attraverso degli occhiali con le lenti scure: tutto sembra più opaco e difficile da affrontare, anche alzarsi dal letto al mattino o fare una doccia. Moltepersone depresse hanno la sensazione che gli altri non possano comprendere il proprio stato d’animo e che siano inutilmente ottimisti.

Tra i disturbi depressivi più frequenti troviamo il disturbo depressivo maggiore, il disturbo depressivo persistente (distimia), il disturbo disforico premestruale. Una forma di depressione molto comune è anche la Depressione Post- Partum che colpisce le donne poco dopo aver dato alla luce un figlio.

La caratteristica comune di tutti questi disturbi è la presenza di umore triste, sensazioni di vuoto e irritabilità, accompagnati da cambiamenti somatici e cognitivi che influenzano in modo significativo la capacità di funzionamento dell’individuo. Ciò che differisce tra loro sono la durata, il tempismo o la presunta etiologia.

Il DSM mette in primo piano i sintomi biologici e somatici della depressione, ma trascura i vissuti soggettivi.

Molti studi sottolineano che i sintomi soggettivi come l’umore depresso, i sentimenti di disperazione e l’autosvalutazione hanno la stessa se non maggiore importanza dei sintomi biologici.

  • sintomi della depressione più comuni, alcuni definiti dal DSM, sono la perdita di energie, senso di fatica, difficoltà nella concentrazione e memoria, agitazione motoria e nervosismo, perdita o aumento di peso, disturbi del sonno (insonnia o ipersonnia), mancanza di desiderio sessuale e dolori fisici.
  • A questi però vanno uniti anche i vissuti emotivi tipici della depressione: le emozioni sperimentate da chi ne soffre sono la tristezza, l’angoscia, la disperazione, l’insoddisfazione, il senso di impotenza, la perdita della speranza e il senso di vuoto.
  • sintomi cognitivi sono la difficoltà nel prendere decisioni e nel risolvere i problemi, la ruminazione mentale (restare a pensare al proprio malessere e alle possibili ragioni), autocriticismo e autosvalutazione, pensiero catastrofico e pensiero pessimista.
  • comportamenti che contraddistinguono la persona depressa sono l’evitamento delle persone e l’isolamento sociale, i comportamenti passivi, frequenti lamentele, la riduzione dell’attività sessuale e i tentativi di suicidio. 

La depressione può colpire chiunque. La letteratura è concorde nel dichiarare che è spesso un sentimento di perdita a causare il manifestarsi del disturbo. Tuttavia le cause della depressione restano molteplici e diverse da persona a persona (ereditarietà, ambiente sociale, lutti familiari, problemi di lavoro,…). Le ricerche mostrano la presenza di due fattori di rischio principali come cause della depressione:

  • il fattore biologico: alcune persone nascono con una maggiore predisposizione genetica verso la depressione;
  • il fattore psicologico: le esperienze e i comportamenti appresi nel corso della propria storia di vita (es: la ruminazione mentale) possono rendere vulnerabili alla depressione.

Le conseguenze della depressione si possono riscontrare in diversi ambiti della vita del paziente. Chi ne soffre, infatti, ha importanti ripercussioni sulla vita di tutti i giorni, dalla famiglia al lavoro. L’attività scolastica o professionale della persona depressa può diminuire in quantità e qualità soprattutto a causa dei problemi di concentrazione e di memoria che tipicamente presentano lepersone con depressione. Questo disturbo, inoltre, porta al ritiro sociale e con il tempo danneggia le relazioni con il/la partner, figli, amici e colleghi.

In chi soffre di depressione, l’umore condiziona anche il rapporto con sé stessi e il proprio corpo. Tipicamente, infatti, chi è depresso ha difficoltà a curare il proprio aspetto, mangiare e dormire in modo regolare.

Non bisogna trascurare le conseguenze della depressione a livello fisico: l’American Heart Association (2014), ad esempio, ha evidenziato che la depressione è associata ad un aumentato rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e cerebrovascolari. La depressione, se non trattata, peggiora gli esiti dell’insufficienza cardiaca e si associa ad una maggiore mortalità.

Chi soffre di depressione va incontro ad un ulteriore costo molto alto da pagare: soffrire a lungo e in forma grave del disturbo porta l’individuo a pensare, e spesso tentare, il suicidio. Molte volte infatti, chi soffre del disturbo si toglie la vita lasciando nel pieno sconforto amici e parenti.

Neltrattamento della depressione si ricorre alla terapia con antidepressivi e alla psicoterapia, entrambe di fondamentale importanza.

La terapia con antidepressivi è unicamente sintomatica, agisce cioè sui sintomi ed è necessaria quando la loro gravità inibisce la vita sociale, lavorativa affettiva.

Intervenire solo con i farmaci però molte volte non basta: va ricordato infatti che le cause della depressione non sono soltanto di tipo biologico e che il disturbo può insorgere anche per motivi di natura psicosociale.

D’altro canto, in molti casi, proprio quando la gravità dei sintomi inibisce la vita sociale, relazionale e professionale dei pazienti, ricorrere alla sola psicoterapia non è una scelta corretta: è bene, infatti, intervenire farmacologicamente sui sintomi, in modo da ridurne la gravità e iniziare così un percorso psicoterapico.

PAURE E FOBIE

È considerato comprensibile sentirsi preoccupati, ma talvolta la paura può superare la soglia di accettabilità sfociando in timori anche irrazionali, invadenti e ricorrenti, che causano un malessere significativo. Nel caso delle fobie, poi, la paura può arrivare a generare un vero e proprio terrore, sperimentato ogni qual volta ci si espone allo stimolo fobico.

In un’accezione più ampia, la paura rappresenta una reazione umana che spazia da meccanismi di autoconservazione necessari alla salvaguardia del singolo individuo o di una collettività fino a più complessi fenomeni inerenti ad una sofferenza emotiva.

In base all’età del soggetto e nel corso dello sviluppo, le paure possono riguardare non solo oggetti concreti (situazioni, persone o animali), ma anche oggetti astratti o immaginari (ad esempio la paura del buio e dei fantasmi nei bambini, o negli adulti la paura di fallire, di fare brutta figura, o di non essere all’altezza). 

È considerato nomale e comprensibile sentirsi preoccupati e tesi di fronte a momenti di vita particolarmente sfidanti o stressanti (ad esempio un congruo livello di ansia prima di un esame può aiutarci a prepararci meglio e ad essere più concentrati), ma talvolta la paura può superare la soglia di accettabilità sfociando in timori anche irrazionali, invadenti, persistenti e ricorrenti, causa di malessere significativo, accompagnati da rimuginio, e suscitati da situazioni che non presenterebbero di per sé alcuna, o una bassa, pericolosità oggettiva. Ciò può sfociare in una reazione ansiosa opprimente e intensa, legata generalmente ad una previsione negativa o pessimistica sul futuro.

Se il termine paura fa riferimento all’emozione sperimentata dall’individuo, quando parliamo di fobie ci addentriamo in un meccanismo complesso ed enigmatico, ma al tempo stesso carico di senso.

La fobia infatti è generata da un lavoro mentale inconscio di trasformazione e chi ne soffre fatica a rintracciarne gli antecedenti o le cause, sentendosi travolto da un vissuto incomprensibile.

Le fobie rientrano nell’ampia categoria dei disturbi d’ansia e sono caratterizzate da una paura o ansia persistente, intensa e marcata, anche accompagnata da reazioni fisiche, automatiche e sgradevoli – come tachicardia, sudorazione, tremore, etc. – oggettivamente (ma non soggettivamente!) sproporzionata alla pericolosità dell’oggetto o della situazione. Il sintomo può manifestarsi anche con un vero e proprio terrore sperimentato all’esposizione allo stimolo fobico, portando la persona a vivere in uno stato di costante allarme e di ipervigilanza.

Ad esempio, recarsi al supermercato da soli o attraversare una piazza dove transitano dei piccioni può non essere pericoloso di per sé, ma queste azioni possono rappresentare per l’individuo qualcosa di insormontabile. Tale reazione è spesso riconosciuta dal soggetto come spropositata o esagerata, ma non controllabile, e resistente a qualsiasi tentativo razionale di rassicurazione. 

Vi sono infatti fobie estremamente invalidanti (agorafobia, claustrofobia) che sovente risultano accompagnarsi con attacchi di panico dando luogo a quel processo di “paura della paura” (o ansia anticipatoria) che consolida il sintomo.

Altre fobie sono legate a “bersagli” maggiormente specifici, come le zoofobie, più facilmente evitabili.

Le fobie portano generalmente l’individuo ad un comportamento di evitamento o fuga, con vissuti di crescente sfiducia, che possono incidere fortemente sulla vita di chi ne soffre.

La necessità, ad esempio, di evitare luoghi pubblici può rappresentare una grave limitazione nella quotidianità lavorativa ed affettiva dell’individuo. Oltre alla qualità della vita inoltre ne risultano infatti spesso influenzate anche la stima di sé e la libertà di muoversi nelle relazioni interpersonali.

L’approccio psicoanalitico sottolinea come non sia tanto rilevante l’oggetto specifico bersaglio dello stimolo fobico (in quanto sono innumerevoli le “cose” o le situazioni che potrebbero suscitare una reazione sproporzionata) quanto il suo significato simbolicole origini e cause del sintomogli eventi di vitagli eventuali traumio il momento in cui il sintomo ha fatto la sua comparsa, oltre ai fattori particolari e soggettivi inerenti alla storia relazionale dell’individuo.

L’approccio terapeutico psicoanalitico è finalizzato a ritrovare gli affetti e i moventi pulsionali apparentemente persi o dimenticati che hanno dato luogo all’insorgere della fobia, trasformati dalla vita mentale inconscia in qualcosa d’altro. Il processo di recupero di spinte vitali nascoste e/o represse permette alla persona di reintegrarle dentro di sé, riappropriandosi pienamente della propria vita emotiva e affettiva. Una psicoterapia è eventualmente integrabile, laddove necessario e sotto la guida di un medico psichiatra, con una cura farmacologica, che può inizialmente aiutare a ridurre il livello di sofferenza e a “lavorare” con maggiore serenità in psicoterapia. È importante per noi sottolineare che l’obiettivo, nel trattamento psicoanalitico delle paure e fobie, è quello di cogliere il senso profondo e particolare del malessere soggettivo (di cui il sintomo fobico rappresenta solo una spia o una manifestazione “visibile”) e non solamente a sedarne le manifestazioni.

ANSIA

L’ ansia è l’emozione provata di fronte a una sensazione di minaccia reale (es. minaccia alla persona) o figurata (es. minaccia all’autostima). È una risposta normale e innata di attivazione, caratterizzata da un aumento della vigilanza e dell’attenzione che ha l’obiettivo di prepararci ad affrontare il pericolo percepito predisponendoci a una risposta di attacco o fuga.

L’ansia può essere fisiologica oppure patologica. L’ansia fisiologica ci prepara ad affrontare in maniera adattiva una possibile situazione difficile mentre l’ansia patologica è disfunzionale perché, essendo persistente e intensa, interferisce con la nostra prestazione, e può essere associata a eventi neutri, che non sono realmente pericolosi.

lsintomi dell’ansia posso essere suddivisi in tre categorie:

  • sintomi psicologici dell’ansia: forte apprensione non commisurata alla portata dell’evento reale, nervosismo, alterazione della memoria e della concentrazione, rimuginio e preoccupazione, insicurezza e timore;
  • sintomi fisici dell’ansia: dovuti a una iperattivazione neurovegetativa, sono costituiti da palpitazioni, tachicardia, ipersudorazione, spasmi alla gola, dispnea, vertigini, bisogno frequente di urinare, sintomi gastroenterici, insonnia con difficoltà ad addormentarsi e risvegli frequenti;
  • tensione motoria: tremori, irrequietezza, agitazione, facilità a sussultare, contratture muscolari, cefalea tensiva.

È possibile distinguere diversi tipi di ansia:

  • ansia automatica: risposta innata a un pericolo interno o esterno;
  • ansia anticipatoria: ha breve durata ed è scatenata da un segnale reale o immaginario, identificabile, associato con il pericolo;
  • ansia generalizzata: è una sensazione di tensione durevole non associata a stimoli particolari;
  • attacchi di panico: sono attacchi d’ansia intensi che si risolvono rapidamente, durante i quali si prova un improvviso senso di grave pericolo (es. paura di morire, paura di impazzire, paura di perdere il controllo). Sono caratterizzati da un’attivazione somatica molto marcata, con sintomi fisici intensi quali palpitazioni, fame d’aria, vertigini fino ad arrivare a un senso di estraneamento dalla realtà.

 

L’ansia è un’emozione presente in maniera trasversale in diverse sindromi e disturbi psichiatrici; potremmo dire che praticamente non esiste alcun disturbo in cui non si manifestino problemi di ansia in una fase del suo decorso: problemi di ansia sono presenti nei disturbi correlati all’uso di sostanze, che spesso si sviluppano come tentativo di automedicazione verso una forte ansia; esperienze di ansia sconvolgenti e intense caratterizzano le psicosi, così come le fasi profonde di depressione o di attivazione maniacale; l’ansia si sviluppa come problema secondario nei disturbi somatoformi, nei disturbi sessuali (es. ansia da prestazione) e nella maggior parte delle malattie organiche; nel disturbo ossessivo compulsivo, le ossessioni (pensieri, immagini, paure, impulsi intrusivi e persistenti che l’individuo non riesce a scacciare dalla propria mente) generano nella persona una ansia tale da indurla a mettere in atto rigidi rituali comportamentali o mentali (compulsioni) con l’obiettivo di ridurre e/o neutralizzare l’ansia; nei disturbi da stress correlati, quali il disturbo post traumatico da stress e il disturbo da stress acuto, il soggetto rivive in continuazione il ricordo o  l’immagine di eventi traumatici per lui particolarmente rilevanti, il tutto accompagnato da forte ansia e marcata attivazione neurovegetativa.

lI disturbi d’ansia

Nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (quinta edizione; DSM–5; American Psychiatric Association, 2013) vengono classificati come disturbi d’ansia i seguenti disturbi:

  • Disturbo d’ansia da separazione
  • Mutismo selettivo
  • Fobia Specifica
  • Disturbo d’ansia sociale
  • Disturbo di panico
  • Agorafobia
  • Disturbo d’ansia generalizzato
  • Disturbo d’ansia da condizione medica 

È possibile diagnosticare un disturbo d’ansia solo quando si è accertato che i sintomi di ansia non sono attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza o farmaco o a un’altra condizione medica, oppure non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale.

Molti disturbi d’ansia si sviluppano in età infantile e tendono a persistere quando non curati. La maggior parte è più comunemente diffusa nella popolazione femminile, con un rapporto di 2:1 rispetto ai maschi.

Il disturbo d’ansia può presentarsi in associazione con un’ulteriore patologia, solitamente di diversa origine, durante il decorso clinico di quest’ultima. Le malattie che più frequentemente si associano ai disturbi d’ansia sono la depressione soprattutto, i disturbi bipolari, l’ADHD, le patologie respiratorie, cardiache e gastrointestinali, l’ artrite e l’ipertensione (Sareen et al., 2006). Inoltre è assodato come pazienti con altre malattie in comorbilità ai disturbi d’ansia presentino un decorso peggiore del disturbo e una qualità di vita inferiore rispetto a pazienti che presentano esclusivamente un disturbo d’ansia (Sareen et al., 2006).

L’ansia è un’emozione che tutti quanti abbiamo provato di fronte alla percezione di una minaccia, ma questo non implica necessariamente che in seguito si sia sviluppato un disturbo d’ansia.

Normalmente quando proviamo ansia mettiamo in atto delle strategie per ridurre o eliminare la minaccia, ripristinando in questo modo la precedente situazione di normalità.

Quindi che cosa fa sì che l’ansia fisiologica si trasformi in ansia patologica e si strutturi un disturbo d’ansia?

Nei disturbi d’ansia l’attivazione fisiologica che segue la percezione di una minaccia nell’ambiente viene valutata a sua volta in maniera catastrofica dal soggetto, diventando essa stessa una minaccia, spesso ancora più grave della minaccia esterna che ha funzionato da fattore scatenante. Si crea così un circolo vizioso in cui l’interpretazione errata e catastrofica dei sintomi dell’ansia aumenta le sensazioni sgradevoli e queste a loro volta rinforzano l’interpretazione catastrofica. Il disturbo d’ansia viene così mantenuto da:

  • attenzione selettiva. Il soggetto pone estrema attenzione ai segnali del proprio corpo interpretandoli in maniera catastrofica;
  • rimuginio. Il soggetto trascorre molto tempo a preoccuparsi cercando di prevedere o prevenire eventi negativi in condizioni di incertezza e di costruire mentalmente ipotetiche soluzioni senza mai giungere a una conclusione;
  • evitamento. Il soggetto evita gli stimoli temuti per non incorrere nell’ansia, riducendo così i propri gradi di libertà.

Il trattamento elettivo per la cura dei disturbi d’ansia è la psicoterapia associata a un trattamento farmacologico.

I farmaci maggiormente utilizzati come rimedi per l’ansia volti a tenere sotto controllo i sintomi sono:

  • gli antidepressivi SSRI;
  • gli ansiolitici;
  • i beta bloccanti per la gestione di particolare sintomi fisici dell’ansia.

I MECCANISMI DI DIFESA PSICHICI

Quando parliamo di meccanismi di difesa facciamo riferimento ad un termine psicoanalitico che individua i processi dinamici e inconsci mossi dall’io per fronteggiare le richieste libidiche o le esperienze pulsionali che scaturiscono dal conflitto psichico, e che l’Io non riesce ad affrontare in modo diretto.

Questi processi psichici sono messi in atto dall’individuo, più o meno automaticamente, quando si presentano delle situazioni stressanti, e per tenere in equilibrio i conflitti generati dallo scontro tra bisogni, impulsi e desideri da una parte e  dalle proibizioni interne e/o condizioni della realtà dall’altra.

Nella vita quotidiana è normale fare ricorso a delle strategie difensive, e spesso si tende a privilegiarne alcune invece che altre, ovviamente questo dipende dalle caratteristiche di base della personalità: infatti l’individuo ostile e diffidente, che tende a vedere ovunque complotti ai suoi danni, ricorre a meccanismi di difesa come la proiezione; invece l’invidioso che sottolinea  sempre gli aspetti negativi dell’altro utilizza la svalutazione.

Ovviamente per permettere che si verifichi un benessere psichico in toto è necessario che l’Io possa funzionare in modo armonico ed economico. Per riuscire a comprendere a fondo il concetto di meccanismo di difesa è necessario far riferimento al modello strutturale proposto da Freud.

Nel modello strutturale si possono riconoscere tre istanze psichiche: Es, Io, SuperIo.

L’Es è un “calderone in ebollizione” di energie grezze, non strutturate, istintuali;

L’Io comprende una serie di funzioni regolatrici che hanno il compito di tenere sotto controllo le pulsioni dell’Es; è in parte conscio ma per quanto attiene ai meccanismi di difesa è inconscio. Le difese inconsce dell’Io non guadagnano nulla nell’essere scoperte e rivelate; la loro presenza discreta, invisibile nella vita psichica dell’individuo è perfettamente accettata (ego-sintonica) anzi rappresentano un elemento centrale nell’organizzazione della personalità.

Il SuperIo è una serie di valori morali e atteggiamenti autocritici organizzatisi intorno alle immagini genitoriali interiorizzate.

L’Io con l’aiuto delle presenze genitoriali interiorizzate nel SuperIo, mantiene rimossi e regola gli istinti primitivi dell’Es per conservare la sicurezza nel mondo degli altri. Il risultato è un mondo psichico per lo più ignoto a sé stesso fin quando le pulsioni sessuali e aggressive, da cui ci si è difesi, non cominciano a premere e a creare i sintomi nevrotici: “il ritorno del rimosso”. La nevrosi è l’esito di un compromesso che viene raggiunto inconsciamente dai tre elementi complementari e antagonisti allo stesso tempo. L’Io elabora una strategia che consenta una certa quota di gratificazione pulsionale, ma la incanala attraverso un sistema complesso di accorte difese. L’Io camuffa l’aspetto delle pulsioni dell’Es in modo da evitare la censura sociale e allo stesso tempo mantenere le pulsioni sotto un attento controllo.

meccanismi di difesa sono funzioni dell’Io del soggetto destinate a proteggerlo dalle richieste istintuali eccessive dell’ES o da un’esperienza pulsionale troppo intensa percepita come pericolo. I meccanismi di difesa si formano nel corso dell’infanzia quando si presenta una minaccia proveniente dal mondo interno e più raramente dalla realtà esterna. Al fine di tenere lontano dalla consapevolezza impulsi sessuali e aggressivi il soggetto utilizza strategie appropriate funzionali all’evitamento dell’ansia, o più propriamente dell’angoscia (“Angst”), altrimenti indotta dall’emergere di impulsi incompatibili con la realtà.
Tali meccanismi costituiscono delle operazioni di protezione messe in gioco dall’Io per garantirsi la propria sicurezza. Avendo un’importante funzione di adattamento, entrano in gioco anche in condizioni normali, andando così ad influenzare in modo determinante il carattere e, di conseguenza, il comportamento di ciascun individuo. Per Freud, la sostanza della personalità è fatta di pulsioni e difese

I meccanismi difensivi operano a un livello automatico e inconscio; raramente svolgono la loro azione separatamente, presentandosi solitamente in maniera combinata, al fine di escludere dalla consapevolezza ciò che risulta inaccettabile, angoscioso, traumatico.

Spesso anche nel linguaggio comune si tende a pensare che le difese sono qualcosa di negativo, che serve a difendersi a scapito dell’affettività e delle relazioni con gli altri. Differentemente, i meccanismi di difesa diventano patologici solo quando acquistano un carattere estremamente rigido, inefficace e non variegato, compromettendo così la flessbilità, l’armonia e l’adattamento del funzionamento mentale.

Essi sono piuttosto strutturanti la personalità del soggetto e di conseguenza necessari per uno sviluppo sano.

 I meccanismi di difesa costituiscono l’insieme delle tecniche di cui l’Io si serve nei suoi conflitti sfocianti eventualmente nella nevrosi; la rimozione è solo un particolare meccanismo di difesa. Si tratta quindi di un vero e proprio sistema di lavoro, organizzato e organizzante la personalità dell’individuo.

Tra le motivazioni e i pericoli da cui l’Io si difende:
– Paura della forza degli istinti, a volte l’Io mette in atto meccanismi di difesa perché sente gli istinti, le pulsioni, troppo potenti o perché sente di non potersi fidare o della propria capacità di gestirli o dell’aiuto del Super-Io.

– Angoscia proveniente da pericoli e minacce esterne, dagli oggetti della realtà.
– Angoscia morale nei riguardi del Super-Io.
– Pericoli legati alle esigenze e ai bisogni di sintesi dell’io quando c’è un conflitto tra tendenze opposte, quali omosessualità e eterosessualità, attività e passività.

Da ciò si ricava che i meccanismi di difesa agiscono non solo nei riguardi degli istinti ma anche degli affetti.
Per quanto concerne il rapporto meccanismi di difesa-malattia va fatta un’importante distinzione tra difese cosiddette primitive, primarie, e difese evolute, secondarie (intendendo primarie e secondarie in senso evolutivo e non in base all’importanza).

Le prime sono quelle che si formano nei primi anni di vita del bambino, sono generalizzanti e totalizzanti in quanto il bambino è “indifeso” nei confronti della realtà interna ed esterna, e per questo è costretto a ricorrere a meccanismi di maggior potere protettivo, che agiscono in maniera globale, andando a limitare enormemente la struttura del soggetto. Tale utilizzo è assolutamente naturale, fisiologico e necessario nei primi anni di vita, ma anche successivamente si possono incontrare in chiave riparativa e funzionale. Si pensi alla situazione del lutto, in cui viene operata una scissione tra buono e cattivo relativamente al prima e dopo la perdita del proprio caro che serve a superare ed elaborare il dolore. Solo il ricorso massiccio ed esclusivo a questi meccanismi può compromettere significativamente l’Io del soggetto e il suo rapporto con la realtà. Tra questi vi sono: scissione dell’oggetto, negazione della realtà psichica, identificazione proiettiva.

Le seconde più evolute si formano a partire dalla fase di latenza (intorno ai sei anni) con l’avvento della rimozione che conduce nell’oblio i primi anni di vita del bambino. Queste sono indicative di una maturità raggiunta dal soggetto, in quanto nel loro compito difensivo vanno a limitare solo una piccola parte dell’Io sia nei riguardi della realtà che della sua identità. Anche in questo caso, l’uso eccessivo solo di alcuni meccanismi di difesa rischia di distorcere la realtà e impoverire l’Io. Oltre alla rimozione, tra di essi vi sono sublimazione,formazione reattiva, isolamento, razionalizzazione.

Con questa distinzione viene superata la prima posizione adottata da Freud, in base alla quale vi sarebbe una corrispondenza tra qualità della malattia nevrotica e qualità della difesa. La valutazione della malattia dipende dalla quantità e dalla flessibilità/rigidità dei meccanismi e non semplicemente, banalmente dal tipo.

Le princièpali difese sono:

Rimozione: esclusione dalla coscienza di rappresentazioni, desideri, fantasie o sentimenti inaccettabili connessi a una pulsione il cui soddisfacimento sarebbe in contrasto con altre esigenze psichiche e giudicato pericoloso. Svolge la sua azione sia escludendo dalla consapevolezza ciò che è già stato sperimentato a livello conscio, sia esercitando un controllo su idee e sentimenti prima che questi raggiungano la consapevolezza. E’ un meccanismo evoluto, nato dalla risoluzione edipica e dalla costituzione del Super-Io (rimozione primaria), che presuppone la presenza di un mondo rappresentazionale e simbolico. La rimozione può verificarsi in qualsiasi momento della vita e non implica necessariamente un esito patologico, anzi è funzionale alla semplificazione della nostra vita quotidiana. La rimozione è il meccanismo basilare delle nevrosi poiché dal suo fallimento e dalla sua sostituzione parziale con altre difese evolute dipende la formazione delle varie malattie nevrotiche.

Regressione: difesa da un’angoscia attuale mediante tecniche di gratificazione che appartengono ad uno stadio psichico precedente o infantile. Ritorno a un livello di sviluppo e di funzionamento mentale più antico e primitivo. Tale processo è strettamente legato all’ipotesi che nel corso dello sviluppo psicologico l’individuo passi attraverso una serie di fasi, ciascuna con le proprie e specifiche caratteristiche istintuali, egoiche e superegoiche. La regressione è solitamente considerata sotto due punti di vista. La regressione libidica consiste nel ritiro a una fase precedente di organizzazione istintuale (fissazione) e si verifica quando l’individuo non è in grado di affrontare un normale e biologico salto maturazionale. La regressione dell’Io è il ritorno a modalità di funzionamento mentale tipiche di un periodo precedente. Le cause della regressione sono molteplici, ma tutte legate a delle pressioni interne ed esterne: momenti di difficoltà, sentimenti spiacevoli (ansia, colpa, frustrazione), eventi di natura fisica (malattia, stress). Il ritorno simbolico a periodi in cui ci sono state esperienze piacevoli e soddisfacenti permette al soggetto di evitare la situazione critica. La regressione è essenziale anche nel trattamento psicoanalitico poiché consente di ritornare alle fasi più primitive dello sviluppo per rivivere e conseguentemente elaborare i conflitti non risolti nella relazione transferale con l’analista.

Formazione reattiva: trasformazione di un desiderio o impulso inaccettabile nel suo opposto. Questo meccanismo si sviluppa a partire dal periodo di latenza per neutralizzare gli impulsi aggressivi o libidici. Essa è parte integrante dell’organizzazione del carattere dell’individuo. Diventa patologica quando si presenta in forma rigida ed esclusiva, accompagnata da sofferenza nel caso in cui non si riesce a mettere in atto i comportamenti reattivi. Ad esempio, le esigenze di pulizia eccessive sono una formazione reattiva dal desiderio massiccio di sporcare.

Isolamento dell’affetto: separazione del pensiero o dell’esperienza sgradevole dalla sua carica affettiva. Un ricordo traumatico può essere facilmente richiamato alla mente ma è privato dei sentimenti concomitanti eccessivamente intensi. L’isolamento priva il pensiero della sua forza motivazionale e quindi dello scopo: le idee sembrano estranee, l’azione si oppone e il senso di colpa può essere tenuta a bada. La rappresentazione rimane cosciente, seppur disturbante, poiché è privata di ogni connessione emotivamente carica. L’isolamento può verificarsi in condizioni normali quando alcuni contenuti ideativi (morte, sessualità, aggressività) sono talmente angosciosi e angoscianti da obbligare il soggetto a prendere una distanza affettiva. Nella patologia, tale meccanismo si ritrova in particolare nella nevrosi ossessiva.

Annullamento retroattivo: annullamento di pensieri, parole, gesti o azioni mettendo in atto comportamenti e pensieri dal significato opposto, con valore espiatorio. Processo attivo consistente nel compiere un’azione, gesto o rituale per cancellare magicamente atti o pensieri sentiti come inaccettabili in quanto legati a rappresentazioni disturbanti. Alla base vi è il pensiero magico, in un’azione simbolica viene agita per capovolgere o cancellare un pensiero o un’azione compiuti, come se non fossero mai esistiti o accaduti. L’annullamento è un meccanismo molto regressivo, in quanto come nel bambino piccolo, opera a livello dell’onnipotenza magica del pensiero e dell’azione. Tipico negli atti di scongiuro del superstizioso e caratteristico dei pazienti ossessivo-compulsivi.

Introiezione: processo inconscio attraverso il quale un oggetto esterno viene simbolicamente preso dentro di sé e assimilato come parte di se stessi. Consiste nella assimilazione della rappresentazione dell’oggetto, nella rappresentazione del Sé, rendendo così indistinti e confusi i confini tra la rappresentazione del Sé e dell’oggetto. Di conseguenza il soggetto può avere dubbi circa la propria identità e separatezza. Nel bambino si tratta di un movimento elaborativo ed evolutivo che consiste nel far entrare una quantità sempre maggiore di mondo esterno all’interno dell’apparato psichico. Il bambino fa sue, assimila i suoi genitori con i loro divieti, regole e valori. Differentemente nell’adulto, l’introiezione può dar luogo alla creazione di fantasmi vissuti come esterni al Sé.

Identificazione: processo mentale automatico ed inconscio mediante il quale il soggetto acquisisce caratteristiche proprie di un’altra persona, assume tratti, qualità e aspetti propri di un altro oggetto. Si deve distinguere l’identificazione, che presuppone l’introiezione di aspetti o figure della realtà esterna, dall’imitazione, che non va a costituire tratti di personalità ma si mantiene superficiale. L’identificazione è un meccanismo che accompagna la maturazione e lo sviluppo mentale, aiuta nei processi di apprendimento e nell’acquisizione dei propri interessi e ideali. Inizialmente il bambino si identifica con i genitori, successivamente con altre figure importanti affettivamente. Può avvenire sia con un oggetto perduto che con un oggetto presente e rassicurante, ma perché si possa parlare di identificazione è necessario che l’individuo sappia distinguere tra sé e gli altri, processo di riconoscimento che avviene solitamente nei primi anni di vita.

Proiezione: attribuzione ad altri di un proprio aspetto ritenuto negativo, per cui il soggetto può biasimarlo in altri ritenendosi immune. I propri impulsi e sentimenti inaccettabili sono attribuiti al mondo esterno, e di conseguenza percepiti come appartenenti ad un’altra persona. La proiezione agisce in ogni momento della vita psichica, sia in fasi molto primitive dello sviluppo infantile, sia in fenomeni non patologici (animismo e superstizione). Diventa evidente e patologica quando comporta una perdita dell’esame di realtà come nella paranoia.

Rivolgimento contro se stessi: processo difensivo che non impedisce a pulsioni e impulsi di accedere alla consapevolezza (come fa la rimozione), ma sposta l’oggetto della pulsione dall’esterno all’interno, dall’altro al Sé. Si manifesta in maniera evidente nel masochismo, nella depressione o in forme meno gravi, autolesionismo, facilità agli incidenti. In questo modo, rimangono oscuri al soggetto sia l’identità dell’oggetto a cui era rivolta originariamente la pulsione, sia il sentimento correlato ad esso.

Scissione: separazione dell’oggetto in virtù della sua ambivalenza in modo da poter dirigere sulle parti scisse gli opposti sentimenti che ispira. Processo inconscio che separa attivamente i sentimenti contraddittori, le rappresentazioni di sé e degli oggetti “buone”, costituite sotto l’impulso della libido, da quelle “cattive”, costruite sotto l’impulso dell’aggressività. E’ presente, secondo M.Klein, nell’infanzia durante la posizione schizoparanoide; la scissione permette al lattante di separare il buono dal cattivo, il piacere dal dispiacere, l’amore dall’odio, al fine di preservare le esperienze, gli affetti, le rappresentazioni di sé e degli oggetti positive. E’ in generale considerata la difesa basilare e principale della psicosi, della patologia narcisistica e degli stati limiti e contribuisce massicciamente a compromettere l’esame di realtà.

Sublimazione: spostamento di una pulsione sessuale o aggressiva verso una meta socialmente accettata e valorizzata. L’energia pulsionale libidica e aggressiva viene neutralizzata e soddisfatta, deviandola verso nuovi scopi o oggetti socialmente e culturalmente più accettabili per l’Io e per il Super-Io. La creatività artistica e intellettuale è un esempio classico di sublimazione. E’ un processo normale e non patologico; l’unico meccanismo difensivo che costituisce solo tratti di personalità sani e integrati. Chiaramente, dei fallimenti in tale processo possono portare allo sviluppo di perversioni, comportamenti psicopatici e o disturbi dell’adattamento.
A questi Anna Freud ne ha aggiunti degli altri che implicano un’interazione tra l’individuo e il mondo.

L’identificazione con l’aggressore: è una delle armi più potenti dell’Io per gestire gli oggetti esterni generatori di angoscia. In questo modo il bambino gestisce la paura e il timore nei riguardi della figura esterna, trasformandosi da colui che viene minacciato in colui che minaccia.

Ascetismo ed intellettualizzazione: tipiche dell’adolescenza, queste difese proteggono dalla paura della forza degli istinti puberali. Nel primo caso, l’adolescente rifiuta di sperimentare i vissuti tipici del periodo e si ritira nel suo mondo interiore. Nel secondo caso si si rifugia in attività intellettuali per esercitare un controllo su contenuti affettivo-istintuali e ridurre così ansia e tensione. Ad esempio le speculazioni filosofiche e religiose degli adolescenti servono proprio al fine di regolare e limitare le intense sensazioni corporee e i profondi conflitti interni. Di per sé non è patologica, ma può diventarlo se conduce a una separazione netta ed invalicabile tra idee e affetti.

In conclusione, i meccanismi di difesa non vanno intesi come qualcosa di patologico a prescindere. Essi sono strutturanti l’identità del soggetto e gli servono per affrontare le difficoltà che incontra attimo dopo attimo. Solo quando il funzionamento diventa pervasivo, rigido e globale c’è il rischio di un’evoluzione patogena. In tali casi, sarà necessario intervenire con il trattamento psicologico per portare in luce i meccanismi difensivi del soggetto e aiutarlo a sostituirli con altri più funzionali, che non significa eliminarli. Senza i meccanismi di difesa l’individuo sarebbe in balia di pulsioni e pericoli e l’unico esito sarebbe l’annientamento.

Disturbi di personalità

Con il termine personalità ci si riferisce al particolare modo di una persona di comportarsi e di percepire se stessa e gli altri: è la manifestazione evidente dell’attività di strutture psicologiche sottostanti che possono essere pensate come costituite da immagini di sé in relazione agli altri. Queste strutture psicologiche non sono altro che l’internalizzazione di modelli relazionali, affettivi, cognitivi, motivazionali e morali. La combinazione di questi elementi forma quello che viene definito come “carattere“, e questa combinazione di elementi contribuisce a definire il modo in cui  un individuo agisce, interpreta e percepisce il mondo.

In particolare le interazioni (emotivamente significative) tra il bambino e le figure di accudimento importanti (la madre e il padre, ma non solo) ripetendosi nel tempo, portano alla creazione di rappresentazioni specifiche di sé e degli altri intrise della qualità emotiva con cui sono state inizialmente sperimentate. L’emozione associata a queste rappresentazioni di interazioni può variare da un amore intenso ad un odio estremo.

È sempre utile precisare che, formandosi nei primi anni di vita, queste rappresentazioni non sono riproduzioni accurate e fedeli della realtà: tendono invece a rappresentare in modo piuttosto estremizzato le interazioni e gli affetti che le riguardano. Di conseguenza quando un evento successivo attiva quella particolare rappresentazione, la persona tende a sperimentarla in modo estremo e semplicistico, del tutto scollegata da una diversa rappresentazione di sé e dell’altro che potrebbe essere attivata da un evento differente (ad esempio un individuo può sentirsi molto felice e apprezzato quando un amico gli sorride ma può sentirsi triste e inutile se lo stesso amico è in ritardo all’appuntamento: le immagini corrispondenti dell’amico sono di una persona amorevole nel primo caso e di una persona rifiutante nel secondo).

Nel caso di un sano sviluppo psicologico, queste molteplici rappresentazioni iniziali, estreme e disconnesse tra loro, progressivamente si integrano in immagini interne di sé e degli altri più complesse e realistiche.

Ci si accorge che le persone hanno contemporaneamente qualità buone e cattive, che è possibile sperimentare delle delusioni riguardo se stessi o gli altri pur continuando ad apprezzare l’esistenza di buone qualità. Si fa esperienza del fatto che provare emozioni negative non distrugge la capacità di continuare a provare emozioni positive e che il proprio stato emotivo in relazione agli altri può essere complesso, con una contemporanea varietà di emozioni di differente natura (e non solo tutte positive o tutte negative).

Un sano sviluppo psicologico, inoltre, porta ad acquisire un senso di sé, un’identità integrata, coerente e stabile nel tempo basata su una valutazione realistica di ciò che si è in cui gli affetti positivi non vengono soffocati da quelli negativi e la forza dell’Io rende possibile affrontare le sfide e le delusioni della vita.

Nel corso dello sviluppo psicologico normale le rappresentazioni estreme di sé e dell’altro tendono ad integrarsi in un insieme unitario che conduce ad un modo più maturo e flessibile di percepire se stessi e gli altri.

Nello sviluppo psicologico che porta a disturbi della personalità invece, vi è un fallimento nell’integrazione di tali rappresentazioni più estreme. Le rappresentazioni interiorizzate associate ad affetti opposti restano separate tra loro e continuano ad esistere indipendentemente le une dalle altre: la percezione del mondo allora è che questo viene vissuto in termini molto concreti, “tutto o niente”, “bianco o nero”, senza gradazioni e spesso senza continuità. Gli impulsi vengono percepiti come troppo concreti, hanno poca possibilità di venire rappresentati psichicamente e perciò spesso esitano in una azione compulsiva e impulsiva (“non potevo fare a meno di”).

Questo vissuto è forse più drammaticamente sperimentato da individui con personalità borderline, ma si osserva anche in individui con altri disturbi di personalità come il disturbo narcisisticoistrionico e paranoide.

La mancanza di un senso di identità complesso, realistico, stabile e ben integrato porta ad indebolire le funzioni dell’Io: le conseguenze sono labilità emotiva, impulsivitàdifficoltà a tollerare ansia e delusione, estrema sensibilità al rifiuto e tutta una serie di altri sintomi comuni ai diversi disturbi di personalità.

Purtroppo il mancato raggiungimento di un senso integrato e stabile di sé e degli altri porta quasi sempre a importanti difficoltà all’interno delle relazioni interpersonali, con i familiari, con il partner, con i colleghi o con gli amici.

Spesso è necessaria una psicoanalisi o una psicoterapia psicoanalitica.

In alcuni casi il disturbo di personalità è meno grave: si parla di patologie della personalità di alto livello o di rigidità della personalità. Qui le rappresentazioni interne dell’individuo sono meglio integrate  ed il senso di identità è maggiormente consolidato: i tratti disadattivi possono presentarsi sotto forma di inibizione di comportamenti normali (ad es. un atteggiamento di generale passività nella vita personale o professionale) oppure di esagerazione di alcuni comportamenti (ad es. un perentorio bisogno di controllare sempre tutto e tutte le persone con cui ha a che fare): in altri termini c’è qualche elemento chiave che non si è potuto integrare nelle rappresentazioni interne e quindi si osserva uno stile caratteriale, rigido, poco o per nulla flessibile. Vi è una diminuita capacità di adattarsi alle fonti interne ed esterne di conflitto e di ansia, una difficoltà a prendere le cose “per quello che sono” o a “lasciar perdere”, una improduttiva tendenza alla preoccupazione eccessiva. Talvolta invece si osserva una sorta di “disinvolta indifferenza” per alcune emozioni poco piacevoli associate a situazioni dolorose o conflittuali. Altre volte si osservano inibizioni relative alla sessualità, all’intimità e al successo professionale, anche sotto forma di autovalutazioni distorte.

Si tratta comunque, nel caso dei disturbi di personalità di alto livello, di persone con una certa attitudine a impegnarsi in un trattamento a lungo termine, con una relativamente ben sviluppata capacità di mettersi in discussione, con buona capacità di stabilire e mantenere un rapporto terapeutico e in grado  di comprendere e valutare la natura simbolica del pensiero oltre che di saper controllare adeguatamente gli impulsi.

In questi casi è assolutamente indicata una psicoanalisi  o una psicoterapia psicoanalitica  in grado di stimolare le ansie e di poterle analizzare in una situazione sicura e contenitiva. Quando il paziente non ha più bisogno di reprimere la propria esperienza interna per evitare le ansie ad essa associate, allora sarà meno rigido e inibito e più libero.

I motivi per i quali si struttura un disturbo della personalità in un particolare individuo sono molteplici e complessi: fattori temperamentali biologicamente determinati (genetici) si combinano e interagiscono con fattori ambientali in maniera tale da portare a strutture psicologiche relativamente scisse e non completamente integrate.

Le rappresentazioni interne di genitori disponibili sono totalmente scisse da rappresentazioni interne di figure di accudimento frustranti in relazione ad un sé umiliato e privo di aiuto. Rappresentazioni così estreme sono ovviamente impregnate di potenti stati affettivi: affetti di amore nel primo caso e di odio nel secondo. Poiché il paziente non ha alcuna consapevolezza del proprio mondo interno e della sue rappresentazioni scisse e non integrate, la sua reazione agli eventi comporta una spiacevole oscillazione tra gli estremi positivi e negativi della gamma dei propri stati affettivi. Queste oscillazioni sono alla base dell’instabilità soggettiva e determinano specifici sintomi individuali come rapporti interpersonali caoticilabilità emotiva, pensiero del tipo “bianco o nero”, rabbia ed una certa tendenza ad avere una visione distorta o incompleta della realtà.

Se si hanno delle relazioni sane con delle persone significative si manifesta una stabilità mentale e rapporti profondi, caratterizzati da calore ed empatia.

La dispersione dell’identità, al contrario, consiste in un concetto di Sé mal integrato in relazione agli altri significativi. Si manifesta, di conseguenza, con un comportamento contraddittorio, che non può essere integrato, o attraverso percezioni superficiali, piatte e impoverite degli altri. Un criterio estremamente importante per la valutazione dell’identità sono le manifestazioni non specifiche di debolezza dell’Io, ovvero lo scarso controllo dell’angoscia e degli impulsi e la mancanza di canali sublimatori maturi.

L’organizzazione difensiva, ovvero i meccanismi di difesa, sono operazioni mentali più o meno consapevoli volti a risolvere un conflitto emotivo intra o extra psichico. Questi modi di organizzarsi della mente sono più o meno stabili e determinano il modo del soggetto di trattare situazioni che lo coinvolgono emotivamente.

I meccanismi di difesa immaturi detti anche primitivi si caratterizzano per una scarsa capacità di riflettere e accettare i propri conflitti psichici, tipici di modalità infantili di funzionamento mentale. Essi derivano dalla scissione delle rappresentazioni di sé e dell’altro in conflitto tra loro che non sono integrate dalla mente dell’individuo, ma parzialmente negate alla consapevolezza.

Le difese mature, invece, sono le strategie psichiche più creative e funzionali per trattare i conflitti emotivi ed affettivi, denotano una capacità del soggetto di tollerare i propri sentimenti contraddittori e ambivalenti e di trovare soluzioni di compromesso. Le difese mature consentono una visione della realtà adeguata e non ne comportano una massiccia distorsione.

Le principali difese mature sono:la rimozione, lo spostamento, la formazione reattiva, l’intellettualizzazione, l’isolamento, la razionalizzazione e l’annullamento retroattivo.

L’esame di realtà si definisce come la capacità di differenziare il Sé dal non Sé, in relazione alle norme sociali condivise e al modo in cui si percepisce il mondo esterno
Di seguito, saranno presentate le tre organizzazioni di personalità in relazione ai rispettivi criteri sopra menzionati.

1 Organizzazione psicotica di personalità

La psicosi, o per meglio dire le psicosi, sono quelle forme di grave disturbo psichico caratterizzate da una più o meno estesa frattura con la realtà e conseguentemente da un modo primitivo di funzionamento della mente e di costruzione della propria esperienza soggettiva.

Secondo Kernberg l’organizzazione psicotica di personalità è caratterizzata dalla scarsa integrazione delle immagini di sé e dell’altro, da un uso massiccio di meccanismi di difesa centrati sulla scissione e dalla perdita dell’esame di realtà. Le difese immature utilizzate dall’organizzazione psicotica hanno come scopo quello di mantenere separate le rappresentazioni buone da quelle persecutorie poiché queste ultime potrebbero annientare e distruggere le immagini interne idealizzate. Le difese messe in atto consentono di proteggere la persona da una parte buona dei propri oggetti interni.

La struttura psicotica è caratterizzata principalmente dalla presenza di deliri e di allucinazioni e la perdita dell’esame di realtà è la manifestazione della loro indifferenziazione interna, tra rappresentazioni di sé e rappresentazioni dell’altro, in presenza di affetti ed emozioni particolarmente intensi.

L’organizzazione strutturale psicotica è tipica dei pazienti che presentano una schizofrenia o altra forma psicotica.  L’angoscia interna, in questo caso, è talmente pervasiva da inondare l’Io, le difese, allora, servono a proteggere il paziente dalla disintegrazione totale e dalla fusione tra il Sé e l’oggetto.Nel paziente psicotico convivono parti sane accanto a parti francamente psicotiche, caratterizzate da difese primitive, che, a partire dal rigetto conducono a meccanismi di negazione della realtà, ad identificazioni proiettive massicce e a meccanismi di scissione che vanno fino all’autoframmentazione del sé, e che sono responsabili dei cosiddetti sintomi produttivi: deliri, allucinazioni, disordini formali del pensiero, grossolani disturbi del comportamento.

Il problema centrale, alla base di tutte le psicosi, è la grande difficoltà nella costruzione del rapporto con gli altri, con il proprio corpo e con il Mondo. In tale ottica i sintomi psicotici  possono essere considerati come un tentativo di compenso a questo problema centrale: compenso sia a livello biologico (sistemi neurologici abitualmente inibiti che prenderebbero il sopravvento) sia a livello esistenziale, compensando la perdita della realtà con la creazione di una neo realtà più vivibile e quindi in grado di ricostruire una relazionalità, seppure patologica, che protegga dal ritiro autistico e dal rischio di implosione e di estrema frammentazione.

Secondo la maggior parte degli psicoanalisti non si nasce psicotici, ma lo si può diventare per varie concause che sopraggiungono nel corso dello sviluppo: a partire da certe caratteristiche dell’intersoggettività primaria, che non ha permesso all‘infans di fornirsi di un apparato parastimoli, in grado di modulare dapprima le esperienze sensoriali-emotive e poi quelle affettive, percepite, perciò, come invasive e persecutorie, e quindi da rigettare. La madre, per esempio, che lascia piangere il bambino per troppo tempo, o, ripetutamente non è in grado di distinguere se il bambino piange perché ha fame o ha bisogno di essere cambiato o di essere tenuto in braccio, e non fornisce tempestivamente la risposta adeguata, non permette che si sviluppi nel bambino una fiducia di base nel poter ricevere risposte alle domande corporee, che i suoi bisogni e desideri possano essere esauditi. Questo porta alla lunga ad un disinvestimento libidico del corpo, con conseguente perdita della funzione centrale del principio di piacere come regolatore dell’attività psichica e fonte di  investimenti del mondo.

Alla luce di queste considerazioni, si comprende perché il processo psicotico comincia spesso nell’infanzia attraverso il meccanismo del ritiro psichico (De Masi, 2018), in quei bambini che non hanno mai sviluppato quella fiducia in se stessi che permette di sentirsi “visti” e significativi per gli altri, legittimati ad avere un loro posto nel mondo. Per sfuggire a questa realtà intollerabile, questi bambini e adolescenti, si isolano e spesso creano un mondo alternativo di fantasie dissociate in cui si rifugiano (Steiner,1993).

Il ritiro offre un’alternativa al mondo relazionale ed ai conflitti ad esso legati (di gelosia, invidia, competizione ecc.) trasformando la mente, da strumento per produrre pensieri (che aiutino a gestire la realtà interna ed esterna), in un organo sensoriale, capace di creare un mondo alternativo, dominato da un piacere speciale e regressivo cui è facile attingere. Da qui l’irriducibilità di alcuni deliri.

2 L’organizzazione nevrotica di personalità

L’organizzazione nevrotica della personalità è caratterizzata da un’identità non diffusa, dall’uso di meccanismi di difesa maturi centrati sulla rimozione e presentano un saldo rapporto con la realtà. Sono individui capaci di relazioni profonde, che hanno una certa forza dell’Io che gli permette di tollerare l’angoscia e di sublimare i propri impulsi. Sono persone spesso efficaci e creative sul lavoro e hanno la capacità di integrare amore e sessualità. La loro vita è a volte disturbata da sensi di colpa inconsci che possono essere connessi all’intimità sessuale. Questo tipo di struttura spesso si ritrova in manifestazioni cliniche quali: le personalità isteriche, depressivo-masochistiche, ossessive, evitanti e fobiche.

Le nevrosi includono tutte quelle categorie patologiche meno gravi rispetto alla psicosi e verso cui la differenza fondamentale riguarda il livello di contatto che l’individuo mantiene con la realtà.

I pazienti nevrotici percepiscono infatti la realtà correttamente, ma si sentono comunque spinti ad agire in modo incongruo rispetto ad essa, esibendo dei comportamenti caratterizzati da

  • Ansia: paura non indirizzata verso un oggetto definito o un oggetto realmente minaccioso.
  • Fobia: paura intensa e irrazionale nei confronti di particolari situazioni, luoghi o oggetti.
  • Ossessioni: pensieri ripetitivi e intrusivi che impediscono al soggetto di svolgere le normali azioni quotidiane.

Con il termine nevrosi s’intende quindi un disturbo psichico vicino alla realtà di tutti noi, cioè presente in persone aventi un funzionamento mentale e un contatto con la realtà adeguati, ma caratterizzato dall’insorgenza di sintomi ansiosi con caratteristiche e gravità differenti, scatenati da situazioni innocue ma che sono in grado di rievocare conflitti del passato non risolti per il soggetto.

I temi conflittuali principali riguardano l’appagamento e la frustrazione, in altre parole le esperienze provate nell’infanzia nelle quali i desideri e le aspettative fondamentali sono stati appagati in maniera ambivalente o addirittura disattesi dalle figure significative, in primo luogo i genitori.

La reazione ansiosa in età adulta può essere talvolta così potente da diventare paralizzante quando è connessa ad angosce più profonde (come l’angoscia di morte o i tabù dell’incesto), ma resta incomprensibile alla parte cosciente del soggetto.

Come ha ben chiarito la teoria psicanalitica freudiana, a scatenare la reazione nevrotica non è l’oggetto in sé, ad esempio l’ascensore o gli spazi affollati, ma ciò che la situazione o l’oggetto rappresentano simbolicamente per l’inconscio.

L’oggetto scatenante è l’espressione in superficie di un desiderio inconscio inaccettabile che quindi è “trasformato” in qualcos’altro, più tollerabile. Ad esempio, la paura dello sporco potrebbe rappresentare la paura del proprio soddisfacimento sessuale perché le persone nevrotiche non hanno appreso il modo di soddisfare i propri desideri sessuali senza temere di violare i tabù e le norme religiose e sociali. Nella nostra mente le varie parti dell’inconscio (gli affetti, i pensieri, i desideri, le aspettative e le paure) non coesistono in modo inerte ma si bilanciano e contrappongono, interagiscono continuamente fra di loro configurando ciò che viene chiamato conflitto inconscio.

È la natura conflittuale del nostro inconscio che costituisce le diverse forme nevrotiche (ad es. l’esigenza della sincerità ma la paura di ferire qualcuno, il bisogno del soddisfacimento dei nostri desideri e l’inibizione attuata dalla famiglia, dalla società o dalla religione).

E’ necessario che i bisogni fondamentali del bambino raggiungano un equilibrio stabile, una sintesi pacifica fra due opposti, al fine di offrire all’individuo adulto gli strumenti necessari per gestire le difficoltà della vita e per tessere delle relazioni significative.

Tra questi desideri contrapposti possiamo riconoscere quelli di

  • dipendenza/indipendenza;
  • competizione/paura del confronto;
  • attività e dominio sull’altro/impotenza e sottomissione;
  • ricerca del piacere sessuale/colpevolizzazione e morale.

Gli eventi della vita adulta, perlopiù quelli spiacevoli (lutti, separazioni, incidenti) e in misura minore anche quelli piacevoli (laurea, realizzazione lavorativa e personale) diventano traumatici per la persona nella misura in cui questi rievocano i conflitti sepolti ai quali sono affettivamente collegati.

Il conflitto emerge quando l’integrazione fra le diverse parti inconsce non è avvenuta a causa di:

  • motivazioni incompatibili (ad esempio il bisogno di dipendenza e sicurezza affettiva e allo stesso tempo l’esigenza di autonomia);
  • bisogni e desideri giudicati negativamente dal Super-Io (ad esempio il bisogno del piacere sessuale e la colpa relativa);
  • sentimenti contraddittori verso lo stesso oggetto (ad esempio amore e odio verso una persona) o oggetti diversi (ad es. affinità con un genitore e timore di dispiacere l’altro).
  • rappresentazioni di sé contraddittorie.

Molte persone hanno dei disturbi nevrotici i quali, essendo lievi, non sono riconosciuti come tali. Spesso questi disturbi sono considerati congrui alla situazione, per esempio avere paura e sudare prima di un esame o essere molto timidi e inibiti durante le interazioni sociali.

In situazioni normali, le contrapposizioni inconsce sono facilmente superabili con un buon adattamento; vi sono tuttavia delle situazioni nella quale questo adattamento, senza un trattamento adeguato, non è possibile. Parliamo di quei conflitti psichici che si sono strutturati e consolidati nel corso della vita, continuando a operare inconsciamente condizionando il modo di vivere dell’individuo.

Il concetto di conflitto psichico occupa un posto predominante in tutte le aree della psicologia che hanno approfondito

  • la natura e le dinamiche dei conflitto;
  • le possibili soluzioni adottate dagli individui per risolverlo;
  • le conseguenze patologiche che possono derivare dalla presenza di conflitti troppo intensi e difficili da gestire.

La psicoterapia elimina i sintomi sulla base del presupposto che essi siano la sostituzione di una serie di bisogni troppo carichi affettivamente da essere riconosciuti, ai quali un processo psichico chiamato rimozione ha negato la possibilità di realizzarsi in maniera consapevole. Queste formazioni mentali inconsce non solo aspirano a esprimersi, ma aspirano a esprimersi in modo congruo al loro valore affettivo.

Con la psicoterapia è possibile portare alla luce il desiderio rimosso, e in questo modo lo stimolo esterno perde ogni potere ansiogeno poiché si riconduce a quello che effettivamente è nella realtà (ad es. “semplicemente” una piazza in una città, “semplicemente” un ascensore …).

Disturbo borderline di personalità

E’ caratterizzato da instabilità degli affetti e delle relazioni e da marcata impulsività. Le persone che ne sono affette hanno grande timore di essere abbandonate e dunque compiono sforzi disperati per evitare abbandoni reali o immaginari. Passano rapidamente dall’idealizzazione alla svalutazione delle persone in quanto sono inclini ad un cambiamento drammatico  e improvviso della loro visione degli altri.

l disturbo borderline è il più comune tra i disturbi di personalità ed è caratterizzato da un notevole impoverimento del funzionamento psicosociale e da un ampio utilizzo di trattamenti psichiatrici e/o psicoterapeutici. Il termine borderline inizialmente indicava una patologia che si colloca “al confine”  tra nevrosi e psicosi. Più recentemente tale termine  è apparso meno adeguato per la descrizione di questa complessa psicopatologia.  A tale proposito A. Correale (2012) ha proposto il termine “borderless” per sottolineare maggiormente  “ l’assenza di confine”  che si esprime con la ben nota disforia ed impulsività dei soggetti affetti da questo disturbo.

Secondo la diagnosi del DSM-IV il disturbo borderline è caratterizzato da una pervasiva instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore, da sentimenti cronici di  vuoto e di abbandono, sintomi dissociativi e rabbia immotivata ed intensa.

Altri criteri importanti per la diagnosi sono: la facilità agli agiti (spesso secondaria ad impulsività ed umore disforico), l’intolleranza alle frustrazioni, lo scarso controllo e consapevolezza delle emozioni, la difficoltà a percepire emotivamente l’altro e l’incapacità di identificarsi con esso,  la tendenza a sviluppare manifestazioni transferali burrascose.

Oltre alle configurazioni sopra menzionate va aggiunta la propensione, in forme e gradi diversi, dell’uso della sofferenza in senso vittimistico e vendicativo/rivendicativo in vista di un ipotetico risarcimento.

E’ utile affiancare a questi parametri l’individuazione  di specifici aspetti di carattere processuale che, a partire da situazioni traumatiche intese come fattori dinamico-etiologici fondamentali, strutturano la personalità del paziente colonizzando la sua mente con specifiche organizzazioni psicopatologiche (così come descritte da  vari autori tra cui Rosenfeld,  Meltzer e Steiner).

La ricostruzione della storia emotiva del paziente mostra spesso come queste organizzazioni mentali siano il risultato d’antiche situazioni d’intollerabile scacco evolutivo che, trasformandosi da situazioni traumatiche in stabili tratti di personalità, mantengono inalterate le condizioni di sofferenza del paziente in una posizione di estrema confusione interna determinando l’impossibilità di raggiungere ed utilizzare la posizione depressiva.

Da questo punto di vista è importante evidenziare che il trauma  si manifesta prevalentemente sotto  la forma d’assenza di risonanza e ricettività emozionale (o in alternativa  intrusività)  da parte degli oggetti primari di relazione. Il deficit di sviluppo dell’inconscio inteso come funzione che permette di comprendere le emozioni proprie e degli altri è  dovuto spesso nei borderline, a tali traumi precoci e ripetuti. In questi pazienti sono inoltre frequentemente osservabili stati di “dissociazione” mentale. Tali stati potrebbero essere definiti come un meccanismo di disintegrazione parziale del Sé (Winnicott, 1986),   una fuga  verso la fantasia dissociata ad occhi aperti.

Infine, per quanto concerne  la comprensione del disturbo (e la sua cura) è centrale nei pazienti borderline anche la condizione di deficit di sviluppo della mentalizzazione.

La mentalizzazione è una forma di attività mentale immaginativa che riguarda sé stessi e gli altri e che permette di comprendere e spiegare il comportamento in termini di stati mentali intenzionali (per es. bisogni, desideri, emozioni, credenze e motivazioni).

Nello sviluppo normale, la madre e il bambino sono coinvolti in un processo intersoggettivo che implica la comunicazione di stati affettivi  in cui la madre ha un ruolo vitale nel regolare,  modulare e rispecchiare adeguatamente gli stati emotivi del figlio. Da qui la necessità che il terapeuta si ponga come nuovo oggetto trasformativo per il paziente borderline che può riuscire  a trovare se stesso nella mente dell’analista inteso come essere pensante e capace di sentimento. Una rappresentazione che non si è mai totalmente sviluppata nella prima infanzia e che, probabilmente è stata in seguito ulteriormente danneggiata da esperienze interpersonali dolorose.

Nelle persone con funzionamento border line gli aspetti contraddittori del Sé e degli altri significativi sono tenuti separati; inoltre l’immagine e la percezione di Sé appaiono instabili e soggetti a frequenti fluttuazioni, e si presenta un esame di realtà compromesso in alcune situazioni emotivamente intense, stressanti o conflittuali. Il funzionamento dell’Io è intermittente, discontinuo e caratterizzato da una notevole debolezza che si evince dall’incapacità di controllare l’angoscia e gli impulsi.

I meccanismi di difesa sono prevalentemente arcaici e sono: scissione, proiezione, idealizzazione e svalutazione, negazione, acting-out, identificazione proiettiva. Secondo Kernberg, il meccanismo di difesa, maggiormente agito dalle persone con questa organizzazione di personalità, è l’identificazione proiettiva, una difesa complessa caratterizzata da tre momenti e basata sul fatto che aspetti propri sono disconosciuti e attribuiti a qualcun altro, ma in maniera differente rispetto alla semplice proiezione.

Nella relazione terapeutica le tre fasi si succedono in questo modo:
1. Il paziente proietta sul terapeuta una rappresentazione del Sé o dell’oggetto.
2. Il terapeuta si identifica, inconsciamente, con quanto proiettato, e si comporta in maniera conforme alla rappresentazione proiettata.
3. Il terapeuta,elaborato il materiale proiettato, lo interpreta e, in seguito, lo restituisce al paziente che lo reintroietta.

Alla base del processo di identificazione proiettiva è presente il desiderio inconscio di sbarazzarsi di una parte di sé e di metterla dentro a qualcun altro, proiettando fuori di sé parti definite “cattive”, che teme possano distruggere le altre parti “buone” del sé.

Disturbo narcisistico

Caratterizzato da grandiosità, ricerca di ammirazione e mancanza di empatia. Le persone che ne sono affette credono di essere superiori agli altri e si aspettano che gli altri li riconoscano come tali; la loro autostima in realtà è molto fragile  facendoli sentire molto sensibili alle critiche e umiliati.

Freud (1905) sosteneva che ciò che può risultare patologico nella vita adulta sia normale nel primo sviluppo dell’essere umano. Infatti, per tutta la sua infanzia il bambino ha bisogno di un adeguato nutrimento narcisistico (amore, cure, attenzione…) affinché possa gradualmente sviluppare un’identità autonoma e soggettiva (Sé coeso) e strutturare la propria mente (con la formazione di istanze e introietti integrati). Ciò che ci ha fatto capire Freud è che occorrono tempo e fatica affinché il bambino possa diventare capace di amare gli altri oltre che se stesso: tutto il suo progressivo sviluppo consisterà infatti nell’uscire sempre più da una condizione narcisistica quasi assoluta ad uno stato sempre più oggettuale (l’investimento affettivo sugli altri).

Nonostante il neonato sia biologicamente dotato di un primitivo “Sé nucleare” orientato e aperto già verso l’oggetto, seppur in modo rudimentale (Stern, 1985 [8]), egli, in una primissima fase, vive con la madre uno stato di simbiosi totale (Io ed Es, soggetto ed oggetto sono ancora in gran parte indifferenziati), in cui il suo senso d’esistere dipendente dal contatto e la fusione con la madre. Egli nel suo narcisismo si sente un essere onnipotente che trova il seno (e l’appagamento immediato del suo bisogno) proprio laddove lo crea allucinandolo nel momento del desiderio

In seguito l’onnipotenza originaria perduta viene spostata dal proprio Sé ai genitori che divengono l’esempio di felicità e di potere con cui il bambino desidera fondersi per acquisire le loro caratteristiche (Ideale dell’Io): egli si sente vuoto e impotente quando è separato dai genitori, motivo per cui cerca di mantenere un legame costante. La megalomania primaria viene abbandonata a favore di una maggiore relazione oggettuale che assicura al piccolo amore e protezione, a patto che egli impari a vivere all’altezza dell’ideale rappresentato e proposto dai genitori.

 

Con la crescita, l’idealizzazione cede il passo ad una visione sempre più realistica dei genitori (includendovi anche i difetti e i limiti), di modo che, con il superamento dell’Edipo e il consolidamento strutturale nel periodo di latenza, il bambino avrà fatto propri (all’interno di sé attraverso l’identificazione), le figure genitoriali (di solito quella dello stesso sesso), con la formazione di un’istanza psichica ben definita (Super-Io) con proprietà morali, normative (proibitive) e ideali (più attenuale). Da questa nuova istanza interiore l’adulto potrà ricevere gratificazione e approvazione narcisistica (come una sorta di guida interna), al pari del bambino quando riceveva esternamente l’approvazione e il riconoscimento dal proprio genitore a seconda di come si comportava.

Già Freud aveva visto come fattore predisponente al narcisismo l’incapacità da parte del genitore di vedere il bambino per quello che è, proiettandovi aspettative e desideri di ciò che dovrebbe essere, ossia come riflesso e appendice del proprio narcisismo personale. Infatti già molto presto il bambino comprende che le dimostrazioni affettive da parte dei genitori giungono proprio nel momento in cui egli mette in atto i comportamenti e le risposte che meglio soddisfano le loro aspettative.

Se il comune narcisismo è figlio della mancanza di “una particolare attenzione” genitoriale, le forme più gravi (come la psicopatia) provengono quasi sempre da storie di abusi o gravi traumi.

Tutto lo sviluppo del Sé del bambino procede grazie alla sintonizzazione al contenimento, all’empatia, alla funzione di “Io ausiliario” . Alterazioni eccessive di tali processi impediscono la costruzione e il consolidamento di strutture interne nella mente del bambino (oggetti buoni interiorizzati) in grado di garantirgli una certa sicurezza narcisistica e la fiducia e la guida per gli investimenti affettivi futuri.

 

Sono proprio le delusioni tollerabili (“le frustrazione ottimali”) che portano allo sviluppo di strutture interne che permettono al bambino di imparare a tollerare sempre più autonomamente le tensioni narcisistiche e ad autoregolarsi emotivamente (ad esempio per consolarsi e calmarsi o fornirsi sostegno e calore emotivo). Infatti, un’educazione che sia esageratamente permissiva ed indulgente o che ecceda in gratificazioni immediate alle richieste del bambino, ostacola il superamento del Sé grandioso, la sua onnipotenza e l’inevitabile frustrazione imposta dai limiti della realtà (sono sempre infatti la mancanza dell’oggetto e la tensione del desiderio ad instaurare il principio di realtà).

 

Kernberg (1975) descrive il narcisismo come l’effetto di eccessive frustrazioni infantili che nel tempo hanno lasciato un tale odio nei confronti del mondo esterno da avere portato il bambino a sviluppare una graduale ipercompensazione e un massiccio iperinvestimento reattivo sul Sé (grandioso), costretto a diventare capace di nutrirsi esclusivamente da solo, non potendo più aspettarsi nulla dagli altri (rimanendo tuttavia avidamente affamato di attenzione e affetto). In un certo senso il Sé grandioso è la risposta ipomaniacale del Sé depresso (dove l’euforia si alterna alla vergogna e alla d epressione), così come l’atto di svalutare, attaccare e umiliare l’altro può rappresentare la trasformazione attiva delle ferite narcisistiche che il bambino ha sperimentato passivamente durante la sua vita infantile (identificazione con l’aggressore), in una dinamica familiare narcisistica che esiste e si mantiene per generazioni.

 

Disturbo dipendente

E’ caratterizzato da un eccessivo e pervasivo bisogno di essere accuditi e protetti che determina un comportamento sottomesso e un costante timore della separazione. Pessimisti e dubbiosi tendono a sminuire se stessi e le proprie capacità. Temendo di perdere l’approvazione faticano ad esprimere il loro disaccordo. Nel caso in cui venga meno una relazione importante si affrettano a sostituirla con un’altra che fornisca loro il supporto emotivo di cui hanno bisogno.

 

 

Disturbo ossessivo-compulsivo

E’ caratterizzato da un’eccessiva preoccupazione per l’ordine, perfezionismo maniacale, accuratezza ed esigenze di controllo. Le persone che ne sono affette sono in genere coscienziose e inflessibili per quanto riguarda moralità, etica e valori.

Disturbo paranoide

Caratterizzato da sfiducia e sospettosità. Gli individui che ne sono affetti presumono di essere sfruttati o danneggiati dagli altri  anche quando non vi sono prove.  Hanno problemi nelle relazioni sociali ed un senso eccessivo dell’autonomia . Sono riluttanti a confidarsi con gli altri e ad entrare in intimità leggendo significati nascosti  umilianti e minacciosi in rimproveri e persino in complimenti benevoli.

 

Disturbo schizoide

E’ caratterizzato da distacco dalle relazioni sociali e da ridotta espressività emotiva. Gli individui che ne sono affetti appaiono indifferenti alle opportunità di stabilire relazioni strette. Preferiscono passare il loro tempo da soli. Appaiono altresì indifferenti alle critiche o all’approvazione e manifestano difficoltà ad esprimere la rabbia. Ciò contribuisce a dare l’impressione che manchino di emozioni.

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CHE COS’E’ LA PSICOANALISI?

La psicoanalisi è un approccio terapeutico basato sulla constatazione che gli individui sono spesso inconsapevoli di molti degli elementi alla base delle proprie emozioni e dei propri comportamenti.
Questi fattori inconsci possono essere fonte di difficoltà, che si manifesta a volte sotto forma di sintomi riconoscibili, altre volte attraverso tratti di personalità problematici, difficoltà lavorative, affettive o relazionali, disturbi dell’umore o dell’autostima.
La psicoanalisi basa il proprio metodo di trattamento sulla concezione di processi mentali inconsci. In origine fu Freud a sviluppare i primi modelli della mente, in seguito sviluppati e rielaborati da un considerevole numero di analisti esperti che hanno lavorato dopo di lui.
Il trattamento psicoanalitico può rivelare come questi fattori inconsci influiscano sulle relazioni attuali e sui modelli di comportamento, ricondurli alle loro origini storiche, rivelare in che modo questi abbiano nel tempo influenzato la propria vita, e aiutare l’individuo ad affrontare meglio la realtà del proprio essere adulto.

In che cosa consiste il famoso concetto di “transfert”?
Nel corso del trattamento psicoanalitico, la natura del rapporto che si sviluppa tra terapeuta e paziente ha inevitabilmente alcune caratteristiche significative, derivanti dal “mondo interno” di quest’ultimo. Il fatto che queste particolarità si manifestino all’interno della seduta – diventando quindi esplorabili all’interno della relazione tra terapeuta e paziente – rende possibile comprendere molti di questi aspetti in maniera più profonda, e lavorare per ottenere dei cambiamenti significativi.
La terapia psicoanalitica è una collaborazione tra paziente e terapeuta, nel corso della quale la persona può venire a conoscenza delle origini delle proprie difficoltà non solo dal punto di vista intellettuale, ma a livello emotivo, grazie alla possibilità di ri-vivere insieme al proprio terapeuta determinate esperienze emotive.
Mentre la persona parla, a poco a poco iniziano a comparire accenni delle fonti inconsce delle attuali difficoltà: attraverso alcuni schemi ripetitivi di comportamento, negli argomenti che il paziente trova difficili da affrontare, o ancora nei modi in cui si mette in relazione con l’altro.
Il terapeuta aiuta a chiarire queste modalità, che poi la persona affina, corregge, rifiuta, e arricchisce aggiungendo ulteriori riflessioni e sentimenti.

In che cosa il metodo psicoanalitico si differenzia dagli altri approcci?
Ecco alcune caratteristiche che aiutano a differenziare il trattamento psicoanalitico da altre forme di psicoterapia:

  •  La psicoanalisi è un trattamento a medio/lungo termine e i suoi risultati sono spesso duraturi, con effetti positivi che di solito continuano a realizzarsi negli anni seguenti il completamento del trattamento.
  • Ciò che permette alla psicoanalisi di essere efficace è la possibilità di comprensione di se stessi nel contesto di una relazione terapeutica
  • I pazienti sono incoraggiati a partecipare anche a più di una seduta settimanale. Questo permette la continuità e l’intensità del lavoro, e non è una misura della gravità del problema.
  • I pazienti spesso si sdraiano sul divano: questo favorisce il fluire del pensiero, l’esperienza emotiva e la riflessione su di sé, e permette ugualmente la possibilità di mantenere la propria intimità ed entrare in contatto con il terapeuta

Gli psicoanalisti sono preparati in maniera specifica a lavorare con questa modalità. Un patrimonio di esperienza e di ricerca ha confermato che questo è il modo migliore per aiutare i pazienti, che diventano in grado di evolversi e cambiare in modo significativo.

La psicoanalisi, per sua stessa natura, si addentra nel mondo della mente inconscia. Essa opera sulla base del fatto che le nostre prime esperienze – di qualsiasi natura – influenzano fortemente lo sviluppo della nostra mente e le modalità con le quali interagiamo con le altre persone intorno a noi.
Molti psicoanalisti importanti hanno contribuito alla comprensione dello sviluppo mentale e del funzionamento dei processi mentali – in particolare i cosiddetti meccanismi di difesa – e come questi ci aiutano ad affrontare il mondo che ci circonda. Questo significa che dopo il lavoro di Freud (che risale ormai ad almeno un secolo fa!) sono stati fatti numerosi progressi, sia nella teoria, sia nella tecnica.
La psicoanalisi occupa un posto molto complicato del mondo moderno: essa ha molto da offrire per aiutare a comprendere il proprio “Io”, e le modalità di funzionamento della propria psiche, eppure, per sua stessa natura, conduce in un territorio spesso molto difficile e impegnativo. Per questo motivo negli ultimi anni viene spesso criticata.

Il Trauma nei bambini

Il TRAUMA INFANTILE può essere definito come la conseguenza mentale di un evento esterno e improvviso o di una serie di eventi altamente stressanti che provocano una sensazione di impotenza nel bambino e che determinano una rottura delle abituali capacità di coping da lui messe in atto.

L’EMDR vede la patologia come informazione immagazzinata in modo non funzionale, soprattutto quella legata alle esperienze nei primi anni di vita.

Le esperienze negative e traumatiche subite in età infantile sono in genere presenti in modo diffuso, vengono sottovalutate e diventano comunque una fonte primaria di disagio. Qualsiasi esperienza in cui il bambino sperimenta oppressione, paura o dolore, insieme ad una sensazione di impotenza, può essere considerato un trauma infantile. I bambini che, durante l’infanzia, hanno sperimentato traumi ripetuti (sia di natura relazionale che ambientale) e che non possono contare su una buona relazione di attaccamento con le proprie figure genitoriali, sono caratterizzati da traiettorie di sviluppo estremamente carenti e danneggiate. Questo è dovuto al fatto che i bambini sono molto impressionabili e il loro livello di esperienza non è tale da dare loro una visione equilibrata della vita e di loro stessi. Tendono a fidarsi molto degli adulti, soprattutto delle figure genitoriali che hanno una grande credibilità ai loro occhi. Quindi, se l’adulto fa o dice qualcosa di negativo o di grave il bambino attribuisce la colpa a se stesso, non ai problemi dell’adulto.

I bambini provano dolore nello stesso modo degli adulti quando vengono esposti a eventi gravi come la morte di un familiare o una malattia o una violenza nei loro confronti. Quindi, i bambini sono soggetti a provare stati di ansia ed emozioni come rabbia, colpa, tristezza, mancanza e senso di impotenza.

La capacità dei bambini di provare questo tipo di dolore è in genere sottovalutata, probabilmente questo è dovuto al fatto che si esprimono con modalità diverse da quelle degli adulti. Inoltre, nella nostra cultura abbiamo la tendenza a proteggere i bambini dal dolore e dalla sofferenza. Indipendentemente dal fatto di essere stati coinvolti direttamente nell’evento, i bambini si rendono conto e sentono quando succede qualcosa di grave.

Se si tace o si è vaghi riguardo all’evento, si lascia il bambino da solo con i suoi pensieri, con la sua immaginazione, con domande senza risposta e con tutta l’incertezza che questo crea. Se non viene data alcuna informazione lasciamo il bambino alle sue fantasie, che in genere sono peggio della realtà. Le fantasie negative possono provocare un senso di ansia e di terrore che lasciano segni permanenti che si manifestano in seguito come vulnerabilità fisica o psichica.

I bambini che hanno vissuto delle esperienze altamente stressanti e traumatiche fin da piccoli, hanno la tendenza a rimettere in atto i loro traumi attraverso il comportamento. Essi possono infatti presentare alcune risposte tipiche determinate da questi fratture nello sviluppo, come ad esempio l’acting out e l’evitamento.

Le risposte a cui i bambini che hanno vissuto eventi traumatici possono andare incontro sono molte; esse possono variare da una breve reazione da stress che si risolve in modo spontaneo, ad una sindrome più complessa definita come Disturbo Post-Traumatico Complesso.

Il supporto di uno psicoterapeuta è necessario, soprattutto se le persone con cui vive il bambino non sono in grado di aiutarlo. L’intervento terapeutico è in genere di breve o media durata ed è importante non solo per risolvere il problema emotivo post-traumatico ma anche come prevenzione di difficoltà future.

I bambini e le loro emozioni

Come aiutare i bambini ad elaborare il trauma

L’EMDR come approccio evidence-based

Nel lasso di trent’anni dalla sua scoperta, ad opera della ricercatrice americana Francine Shapiro, l’EMDR ha ricevuto più conferme scientifiche di qualunque altro metodo usato nel trattamento dei traumi.

Oggi è riconosciuto come metodo evidence based per il trattamento dei disturbi post traumatici, approvato, tra gli altri, dall’American Psychological Association (1998-2002), dall’American Psychiatric Association (2004), dall’International Society for Traumatic Stress Studies (2010) e dal nostro Ministero della salute nel 2003. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’agosto del 2013, ha riconosciuto l’EMDR come trattamento efficace per la cura del trauma e dei disturbi ad esso correlati.

L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità.  La ricerca recente mostra che, attraverso l’utilizzo dell’EMDR, le persone possono beneficiare degli effetti di una psicoterapia che una volta avrebbe impiegato anni per fare la differenza.

Alcune ricerche hanno infatti dimostrato che tra l’84% e il 90% dei pazienti che riportavano l’esperienza di un singolo evento traumatico non mostravano più i sintomi di un Disturbo da Stress Post-traumatico dopo sole 3 sessioni di EMDR da 90 minuti ciascuna. L’efficacia dell’EMDR nel trattamento del PTSD è ormai ampiamente riconosciuta e documentata, ma attualmente l’EMDR è un approccio terapeutico ampiamente usato anche per il trattamento di varie patologie e disturbi psicologici.

Data l’importanza che gli eventi traumatici (siano essi traumi singoli che cumulativi e relazionali) rivestono nello sviluppo di differenti patologie, diviene importante affrontarle attraverso un approccio che tenga in considerazione e riesca ad intervenire sull’origine traumatica di tali disturbi.

La ricerca riguardante l’EMDR è una delle prime in cui sono stati evidenziati i cambiamenti neurobiologici che si verificano durante ogni seduta di psicoterapia, rendendo l’EMDR il primo trattamento psicoterapeutico con un’efficacia neurobiologica provata. Le scoperte in questo campo confermano l’associazione tra i risultati clinici di questa terapia e alcuni cambiamenti a livello delle strutture e del funzionamento cerebrale.

Dato il riconoscimento a livello mondiale dell’efficacia di questo metodo terapeutico per il trattamento del trauma, ad oggi più di 120.000 clinici in tutto il mondo usano questa terapia. Milioni di persone sono state trattate con successo negli ultimi anni.

Quali sono le basi dell’EMDR?

L’approccio EMDR, adottato da un numero sempre crescente di psicoterapeuti in tutto il mondo, è basato sul modello di elaborazione adattiva dell’Informazione (AIP). Secondo l’AIP, l’evento traumatico vissuto dal soggetto viene immagazzinato in memoria insieme alle emozioni, percezioni, cognizioni e sensazioni fisiche disturbanti che hanno caratterizzato quel momento. Tutte queste informazioni immagazzinate in modo disfunzionale, restano “congelate” all’interno delle reti neurali e incapaci di mettersi in connessione con le altre reti con informazioni utili. Le informazioni ”congelate” e racchiuse nelle reti neurali, non potendo essere elaborate, continuano a provocare disagio nel soggetto, fino a portare all’insorgenza di patologie come il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e altri disturbi psicologici.

Le cicatrici degli avvenimenti più dolorosi, infatti, non scompaiono facilmente dal cervello: molte persone continuano dopo decenni a soffrire di sintomi che ne condizionano il benessere e impediscono loro di riprendere una nuova vita.

L’obiettivo dell’EMDR è quello di ripristinare il naturale processo di elaborazione delle informazioni presenti in memoria per giungere ad una risoluzione adattiva attraverso la creazione di nuove connessioni più funzionali. Una volta avvenuto ciò, il paziente può vedere l’evento disturbante e se stesso da una nuova prospettiva.

L’EMDR considera tutti gli aspetti di un’ esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici. Utilizzando un protocollo strutturato il terapeuta  guida il paziente nella descrizione dell’evento traumatico, aiutandolo a scegliere gli elementi disturbanti importanti.

Al termine della seduta di EMDR, quando il processo di rielaborazione ha raggiunto la risoluzione adattiva, l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo.

Attraverso il trattamento con l’EMDR è dunque possibile alleviare la sofferenza emotiva, permettere la riformulazione delle credenze negative e ridurre l’arousal fisiologico del paziente.
Questo approccio risulta efficace anche con i pazienti che hanno difficoltà nel verbalizzare l’evento traumatico che hanno vissuto. L’EMDR, infatti, utilizza tecniche che possono fornire al paziente un maggior controllo verso le esperienze di esposizione (poiché non si basa su interventi verbali), e che possono aiutarlo nella regolazione e nella gestione delle emozioni intense che potrebbero scaturire durante la fase di elaborazione.