PANICO E SENSAZIONI DI STRANIAMENTO

A volte la persona è ansiosa e lamenta sintomi come  polso accelerato, sudorazione, tensione muscolare ma non ha coscienza di alcun pensiero riguardante un pericolo incombente.

L’attacco di panico che ne può derivare è un sintomo psicologico causato da un’angoscia nella quale la valutazione del pericolo riguarda qualcosa di cui la persona sofferente non vuole prendere coscienza perché se ne vergogna per esempio.

Gli attacchi di panico come altri sintomi, ad esempio i rituali ossessivo-compulsivi, sono un disperato tentativo di evitare di prestare attenzione a pensieri minacciosi.

Alterazioni del senso di realtà denominate depersonalizzazioni (ovvero il vissuto di sé come irreale) o derealizzazioni (ovvero il vissuto dell’ambiente esterno come irreale) sono sintomi che insorgono come tentativo di evitare di prendere coscienza del contenuto di pensieri che suscitano angoscia. Si focalizza dunque l’attenzione su una percezione che distrae, come ad esempio il sentire che si osserva se stessi dall’alto o a distanza o che tutto sembra “fuori”, alterato, estraneo così da non dover prestare attenzione ai pensieri minacciosi. La sensazione di essere sconnessi da se stessi o che le cose intorno a noi siano strane e non riconoscibili generano un senso di inquietudine e di smarrimento.

Quando si verificano nella propria storia degli eventi spiacevoli da cui si viene sopraffatti (che possono riguardare la sfera sessuale (un abuso, una relazione incestuosa o un maltrattamento per esempio) si possono mettere in campo delle difese per far fronte all’angoscia e ai sentimenti ambivalenti che si che si sono provati.

La difesa è una riposta psicologica sollecitata da un affetto spiacevole il cui scopo è quello di evitare di provare quell’affetto. Depersonalizzazione e derealizzazione sono difese contro l’angoscia come l’attacco di panico e i sintomi ossessivo compulsivi.

L’angoscia è un segnale di pericolo che si verifica quando un persona formula il giudizio che la situazione attuale somiglia ad una spiacevole situazione passata. Poiché è sgradevole, una risposta naturale è il tentativo di eliminarla evitando quella situazione che il paziente pensa sia pericolosa (come è stata realmente pericolosa invece una situazione vissuta nel passato ma poi dimenticata) ma che nella realtà presente non lo è.

La terapia ha il compito dunque di occuparsi delle risposte adattative motivate da angosce basate su erronee valutazioni di pericolo che limitano fortemente la vita attuale della persona impedendole di crescere e di realizzare se stessa e i propri progetti generando un profondo malessere.

Nel trattamento quindi è importante incoraggiare il paziente a parlare di quello a cui evita di pensare permettendo al contenuto pericoloso che si cerca di evitare di affiorare alla coscienza in modo da risolvere l’angoscia e procedere così ad una piena realizzazione di sé.

Dott.ssa Milena Lazzari

Psicoterapeuta

COME FUNZIONA LA PSICOTERAPIA?

COSA DETERMINA IL CAMBIAMENTO NEL LAVORO TERAPEUTICO?

Nella relazione con il paziente a volte non accade nulla, c’è ripetizione a tratti monotona e sterile. Poi, improvvisamente, qualcosa cattura il nostro interesse. Un guizzo, qualcosa che il paziente dice o fa che ci ridesta. Giunge con il movimento lento, impercepibile, in una dimensione dove pensieri, sensazioni, emozioni scorrono anche quando non sembra. Qualcosa ci ispira!

Avere un’ispirazione equivale forse a sviluppare ulteriormente la creatività, l’attenzione, la riflessione  e rafforza la capacità di trasformare la realtà di quella storia vissuta ma non pensata che il paziente porta in terapia.

Penso che avere un’ispirazione equivalga a vivere con più consapevolezza di sé e con più pienezza dentro e fuori dalla stanza di terapia.

La psicoterapia rappresenta quello sforzo riflessivo, consapevole, a lasciare andare una vitalità inconscia istintiva  che erompe da dentro e genera un pensiero nuovo.

Solo l’ispirazione rende viva un’opera d’arte e lo stesso vale per la terapia.

Per quanto la tecnica possa essere impeccabile, è solo entrando in risonanza con la dinamica di funzionamento di quel paziente in quel momento, in quel modo che si raggiungerà quella sintonizzazione emotiva che consente l’accesso e la trasformazione dei livelli più profondi del sé.

L’obiettivo è quello di raggiungere e di intercettare qualcosa che non può ancora essere stata  pensata,  senza forma, per aiutarla ad affiorare rendendola percepibile e pensabile.

 L’ispirazione crea significati nel confronto che diventano  spunto per nuove ispirazioni  provocando turbamento, tollerando il vuoto di pensieri, senza riempirlo prematuramente di significati posticci  ma consentendo di metabolizzare l’esperienza, facendo decantare le sensazioni e lasciando emergere nuove immagini nelle fantasie e nei sogni.

Pellizzari diceva di come fare psicoterapia sia un’arte, l’arte di stare nell’area del possibile, quella fatta delle risorse che si hanno in quel momento che stanno sia in capo al paziente che al terapeuta e all’ambiente in cui sono collocati entrambi. Curiosità, passione e piacere sono gli ingredienti fondamentali perché si impari davvero qualcosa dall’esperienza e si possa manifestare l’ispirazione. L ‘ispirazione scaturisce dalla passione perché se non ci si appassiona di quello che si sta facendo e  della storia del paziente non si può trasmettere interesse e curiosità al paziente affinché provi a vedere e a narrare la sua storia in un altro modo.

Nella psicoterapia il paziente conosce il suo terapeuta attraverso il transfert, attraverso il suo tendere a “trasferire” sul terapeuta i suoi conflitti irrisolti con le persone importanti della sua vita.

Ciò gli permette di conoscere e trasformare se stesso, le proprie teorie su chi è, di diventare più padrone di sé. Si tratta di un incontro che diviene fonte di scoperta e di esplorazione tra i due interlocutori.

La messa in scena nel transfert delle situazioni traumatiche, generatrici di una sofferenza indicibile , è alla base della loro elaborazione terapeutica. Ma ci sono anche i sentimenti che il paziente suscita in noi che ci guidano verso la conoscenza dell’altro e di noi stessi (controtransfert).

Entrambi questi concetti di transfert e controtransfert diventano fonte dei ispirazione nella terapia, introducono qualcosa di nuovo.

La metafora, la  poesia, le storie, il gioco danno voce  a qualcosa che è presente ma non sa parlare di sé; ci fa vedere le cose in un modo tale da rivelarcele diverse da come eravamo abituati a vederle. Rende visibile l’invisibile.

Al paziente, quando si porge l’immagine giusta si da modo di dire la sua storia e di dare voce al sentimento muto presente dentro di lui.

Lo scopo del nostro lavoro è di “rimettere nel cuore i frammenti bloccati di un passato che non passa” e lo possiamo fare solo attraverso la nostra sensibilità e la nostra capacità di “entrare in gioco” nella relazione con il paziente con fantasia, audacia, e il piacere della nostra curiosità.

Il compito della terapia è quello di creare un’area di riflessione non scontata che possa sorprendere, incuriosire e generare una conoscenza nuova, rendendo la sofferenza interessante e diventando così l’occasione di una  crescita, di una trasformazione.

Milena Lazzari

psicologa-psicoterapeuta

 VIVERE O MORIRE

Il tentativo di suicido in adolescenza

L’adolescente che cerca di uccidersi compie un’azione di crudeltà verso se stesso e verso le persone che sono in relazione con  lui.

Nel corso delle terapie con questi ragazzi viene  fuori rabbia e desiderio di vendetta e un dolore intollerabile causato da un intimo e profondo sentimento di inadeguatezza che li accompagna da sempre.

Se un giovane cerca di togliersi la vita non è mai il caso di sottovalutare, minimizzare o sdrammatizzare perché si vede che qualcosa di grave c’è se si prova il desiderio di morire. Quello che è davvero efficace e può rappresentare nel tempo un deterrente a cercare di procurarsi la morte è offrirgli una relazione di senso, una presenza sollecita e una condivisione anche di momenti di vuoto, di dolore e di sentimenti perché il suicidio avviene quando un ragazzo si convince che la  trama delle sue relazioni familiari, amicali e amorose è fasulla.

Occorre tenere legati i ragazzi dentro delle relazioni dove sentano di poter parlare della morte.

A volte i genitori sono emotivamente sordi perché non colgono la richiesta di aiuto e si attivano solo quando diventa un urlo disperato.

Capire significa accorgersi che il figlio è  cresciuto e sta diventato un soggetto sociale e sessuale,  membro di una coppia amorosa  ed esposto quindi al dolore.

A volte i genitori si rendono conto che dal canto loro hanno preteso troppo o troppo poco .

Il suicidio ha origini profonde nella mente dell’adolescente e nella rete delle relazioni affettive dalle quali sta cercando di trovare la via d’uscita , perché la sua fragilità ha radici lontane. La questione urgente alla base del tentato suicidio è il ritardo nel crescere e la fatica a separasi dall’area materna.

La convinzione di questi ragazzi  è che il futuro sia morto,  che non ci sono progetti e vocazioni da realizzare. Si sentono inadeguati a relazionarsi con i processi di crescita.

L’adolescente, relegato in un eterno presente buio, diventa incapace di sperare,  di progettare. Non è tanto disposto ad assumersi la responsabilità del suo futuro e di quello che diventerà.

Nella sua vita è in corso un lutto per un sé che non può mantenere le premesse di grandiosità che erano state fatte durante l’infanzia.

Da qui deriva il trauma della perdita della perfezione e il lutto per la morte di un futuro troppo bello per essere vero, di cui l’adolescente deve prendere consapevolezza accettando che la vita sia piena di limiti e imperfezioni ma vale comunque la pena di essere vissuta.

L’adulto deve ammettere che la vita è fatta di dolore e perdite.

Gli adolescenti spesso non lo sanno, anzi sono stati ingannati  proprio sull’esistenza del dolore e della perdita. Loro si distraggono, si divertono  assordandosi, usando sostanze anestetiche o euforizzanti per non avvertire il dolore ma in realtà il fatto è che anche i ragazzi possono soffrire  e quando ciò accade non sanno come fare a gestirlo visto che non l’hanno mai imparato , perché non sanno se passerà quel dolore così intenso e pensano che la vita sia solo sofferenza.

I ragazzi più fragili sperimentano sentimenti di vergogna e di mortificazione di una tale intensità che il dolore che ne deriva è cosi insopportabile da dare sfogo ad una rabbia vendicativa nei confronti dell’oggetto capace di suscitare una tale umiliazione e sofferenza. Ma quella rabbia finiscono per rivolgerla in primis contro se stessi.

Dover mostrare che nel futuro non ci sarà nessuna grandiosità o talento particolare ma prestazioni normali  suscita vergogna, basata sulla consapevolezza di essere incapace di attendere alle aspettative di grandezza.

Gli adolescenti sono alla disperata ricerca di un riconoscimento,  di uno sguardo  rispecchiante che non arriva mai, risultando invece implacabilmente severo. Il messaggio che arriva e che loro sono sbagliati ma è sbagliato anche il modo sacrificale, esagerato  con cui certe madri e certi padri svolgono il loro compito di crescita del figlio o di attese che il figlio realizzi qualcosa di davvero speciale nella propria vita.

Genitori che muovono una critica, un rimprovero aspro, l’indifferenza, la svalutazione, l’abbandono o una valutazione negativa. 

Il suicidio è quasi sempre un modo per riscattarsi dall’offesa della ferita narcisistica subita. Solo quando l’oggetto è disposto a ritirare le proprie aspettative si allenta la pressione   e si possono evitare le ritorsioni.

Di fondamentale importanza per superare il blocco evolutivo è sganciarsi dall’area iperprotettiva materna per realizzare, accompagnati dal padre , progetti  meno idealizzati e raggiungibili con la costanze  e l’impegno.

Al padre va il compito di legittimare la femminilità della figlia e la virilità del maschio aiutandoli a comunicare i sentimenti che hanno a che fare con il corpo, l’aggressività  e il desiderio.

L’unico antidoto all’attrazione che esercita la morte è costruire legami solidi e significativi che sappiano contenere il pensiero della morte stessa facendo sentire l’importanza dei vincoli che si creano, all’interno dei quali occorre parlare delle fatiche del vivere.

Milena Lazzari – Psicologa-psicoterapeuta

L’ADOLESCENTE E IL SUO CORPO

“Non è bella questa età!”

Con queste parole Sara, una ragazza di 15 anni grida al mondo il suo dolore per un passaggio difficile che non sa come affrontare. E’ appena entrata nel centro dove la attende la sua terapeuta. “Era più bello quando ero piccola perché c’era sempre qualcuno vicino, perché ora questo corpo non è più mio”.

Parole dette con la potenza del dolore, urlate in un posto in cui sente che possono essere accolte prima ancora di essere capite e interpretate. Per Sara, i cui primi anni di vita sono stati caratterizzati da un forte disagio, questa fase della vita e sicuramente più difficile di quanto lo sia per altri ragazzi. Nell’affrontare il tema dell’identità corporea  il passaggio dall’infanzia all’adolescenza avviene ormai senza riti di passaggio che ne sanciscano il significato. Il senso di onnipotenza che pervade la vita affettiva del bambino passa nel ragazzo che deve fare i conti con una delle trasformazioni più radicali dell’intera esistenza.

Questo colloca oggi l’adolescenza in una dimensione aspecifica che si estende in un arco di tempo dilatato .

Il ragazzo che chiede un intervento chirurgico per migliorare il proprio naso, la ragazza che vuole migliorare il proprio seno o che si mette a dieta ferrea, i ragazzi che attraverso la depilazione rincorrono un’immagine femminile, adornare il proprio corpo con  tatuaggi e  piercing insieme alla non accettazione di momenti fisiologici come quelli dell’acne sono comportamenti che possono essere interpretati come un rifiuto di abbandonare l’Eden dell’infanzia o anche come un tentativo di aderire agli standard proposti dagli adulti.

Molto è stato detto sulla ricerca della perfezione estetica e sull’eccesso di richieste di standard sempre più elevati di bellezza e successo. Il corpo  è per l’adolescente il luogo sul quale si giocano le principali trasgressioni rispetto al mondo degli adulti che costituiscono un canale di comunicazione con l’esterno. Aderire alla moda dei pari vuol dire indossare una prima identità che lo definisce libero dagli standard della famiglia. Le continue trasformazioni del corpo richiedono una buona dose di adattabilità perché il ragazzo trovi di volta in volta le forme che esprimono il suo peculiare modo di essere al mondo.

Il corpo, che può essere modificato ma non trasformato, può esprimere vigore ma anche essere sede di fastidi, malesseri e malattie accettando le graduali limitazioni al proprio prorompente narcisismo. Ma se il bambino di ieri non è stato abituato a fare i conti con alcun tipo di dolore  e se gli adulti sono capaci di cambiare i propri connotati fisici perché gli adolescenti non dovrebbero fare lo stesso?

Ci sono situazioni in cui il bambino sperimenta l’impossibilità di far fronte a un minimo disagio del corpo  che si caratterizza come un involucro inviolabile cui non bisogna far patire il minimo danno. Manca cioè quel contenimento che consente gradualmente di fare i conti con la tolleranza e con la capacità di attribuire senso. Ci troviamo di fronte ad un corpo che non viene più definito dal limite ma dalla sua possibilità di superarlo anche attraverso l’accettazione di un dolore (fisico) ricercato come esperienza  come ci raccontano certe forme di piercing o il cutting. Ci confrontiamo con un corpo che fatica ad essere mentalizzato perché non c’è tempo di aspettare che il dolore passi e non c’è modo di apprezzare l’originalità della differenza. Il corpo dei nostri adolescenti è diventata la sede di tutti i disagi che costellano la trasformazione e l’espressione di tutti i sentimenti che la pervadono. Come se la frustrazione, la rabbia e la delusione che non sono più contenute a livello mentale e non trovano posto nemmeno nell’adulto, trovassero una via d’uscita in azioni perpetuate sul proprio corpo. Un corpo sul quale vengono a iscriversi ribellioni, proteste sorde, rivalse.

Il cutting è un tentativo di vivere sul proprio corpo un dolore altrimenti indicibile. E’ la possibilità di infliggere un danno  al corpo immacolato dell’infanzia. “Quelle ferite mi ricordano momenti terribili che altrimenti non avrebbero avuto luogo”. Questo mi disse una ragazza che non si era mai permessa di sentire un dolore che aveva vissuto attraverso il corpo. Restava sul corpo una traccia che le dava un senso di continuità, tagli che sembrano aprire una comunicazione tra il mondo esterno e il mondo interno. “Quel sangue mi fa sentire una calma interiore e non mi sento più vuota.

Un sentimento diffuso nei giovani è quello della  vergogna determinato dal non sentirsi all’altezza del mandato genitoriale ovvero “sii te stesso a modo mio”. Parliamo di standard prestazionali d’eccellenza da parte di genitori che non mortificano il talento ma lo esaltano in figli con esistenze sempre più iperattive che si angosciano quando cominciano ad arrancare.

Avere un corpo forte e meglio definito con diete ed esercizio fisico significa plasmare nel corpo la propria identità con un tendere ossessivamente alla perfezione. L’Impossibilità a sostare nel dolore sposta l’attenzione sul corpo, unico oggetto investito. Una virilità e una femminilità dunque fatte di solo corpo. Nel corpo viene messo in atto un conflitto tra controllo e abbandono pulsionale.

I genitori non si possono deludere; non c’è spazio per la rabbia, per la tristezza o per il dolore dell’esistere. Ci troviamo di fronte a un modello materno potente e dominante e ad un modello paterno fragile  e non riconosciuto.

E’ questo il tempo del vuoto identitario. “Ti dico io cosa provi e chi sei” in un ottica di evitamento del dolore e di non separatezza favorite dai genitori che iper-investono nella prestazione del figlio: il fare si sostituisce all’essere e al sentire.

Il corpo è un oggetto esibito e competitivo. Se l’ideale è irraggiungibile il corpo viene attaccato e la vergogna per la propria inadeguatezza spinge il giovane a ritrarsi da qualsiasi vero incontro con l’altro che finisce per essere solo una stampella narcisistica del  proprio sé.

I corpi diafani che si aggirano come fantasmi, i corpi feriti che portano in giro la memoria di un dolore, i corpi inadeguati o superpotenti sono alla ricerca di un significato da dare al proprio cambiamento. E’ necessario non esserne spaventati sdrammatizzando la tragicità senza perdere il contatto con l’intensità della comunicazione per restituire ai ragazzi quel bisogno di sentirsi unici e padroni del mondo come è stato concesso alle nostre adolescenze.

“Non è bella questa età!”

Dott.ssa Milena Lazzari

psicologa-psicoterapeuta

L’USO DELLA TECNOLOGIA IN ADOLESCENZA

ragazzi di oggi, i cosiddetti «nativi digitali», sono nati e cresciuti in un contesto tecnologico e oggi chi non usa la tecnologia è considerato un outsider della società.

I giovani vivono la tecnologia, e lo smartphone in particolare, come qualcosa di cui non riescono a fare a meno. Diverse ricerche condotte in Italia dai soci del Minotauro sull’utilizzo di Internet da parte degli adolescenti rilevano che chi usa la Rete ha di solito anche una vita di buon livello e amicizie reali, a meno che non emerga un reale disturbo patologico. Sono invece i “non utilizzatori” quelli che stanno peggio e hanno maggiori problemi di socializzazione.

Altro dato di fatto è che il cellulare o gli altri device li regalano mamma o papà. È una scelta educativa importante e una volta fatta non si può rinnegare. All’inizio il cellulare è spesso usato dalle mamme come cordone ombelicate virtuale e consente ai ragazzi di ottenere un’autonomia fittizia: “chiamami quando arrivi, scrivimi come è andata la verifica ecc…” Poi quando questo fitto meccanismo di comunicazione che consente di stare sempre in contatto viene spostato dalla famiglia al contesto di amici, e alla mamma non si risponde più con tanta assiduità, allora viene criticato. Eppure è normale che un adolescente sano cerchi affetto e vicinanza dai propri coetanei.

Bisogna inoltre considerare che, essendo quasi totalmente scomparsi i luoghi di aggregazione spontanea (es. giardini, piazze, oratori,ecc..), questa generazione ha trovato nella Rete un nuovo modo per stare insieme autonomamente senza la presenza degli adulti.

Non di rado si sente dire: “ci vediamo alla partitella”, che però non è quella al campo di calcio, ma è il videogioco in Rete. Nelle chat di classe c’è sempre qualcuno che fa le battute, qualcun altro che posta video, altri ancora che si fanno carico dell’angoscia e solitudine dei compagni. Quello che succedeva in piazza, ora succede online. Ma le paure e le fragilità sono le stesse delle generazioni passate, è cambiato solo il mezzo con cui comunicarle e per questo appaiono amplificate. A volte in rete avviene un vero e proprio allenamento alle competenze necessarie alle relazioni: i ragazzi si esercitano online postando magari l’ultimo taglio di capelli, o un vestito nuovo per studiare la reazione virtuale prima di mostrarsi nella vita reale. Non a caso è quasi sempre visibile l’evoluzione dell’utilizzo dei social: i profili dei preadolescenti sono molto attivi, sono quelli che più rincorrono i “like”. I più grandi invece quando la personalità è più strutturata, sentono sempre meno il bisogno della rassicurazione online. Infine lo schermo protegge e può aiutare i più timidi.

Il primo passo che noi adulti dovremmo quindi fare, quando ci approciamo agli adolescenti e all’utilizzo che fanno delle tecnologie, non è quello di soffermarci su “quanto usano” internet e i vari device ma sul “come” lo fanno. Dobbiamo arrivare a capire se vita reale e vita virtuale del ragazzo si intrecciano o meno. In sostanza, bisogna comprendere se l’utilizzo che l’adolescente sta facendo dello schermo sostiene i suoi “compiti evolutivi”, ossia se in qualche modo lo aiuta a costruirsi un’identità o, se invece, costituisce un rifugio dalla realtà.

Come sostiene Lancini “bisogna vedere se il ragazzo continua ad andare a scuola, se la sua cerchia di amici online è parallela a quella reale. Se rimane chiuso in casa senza frequentare nessuno probabilmente c’è un disagio. La radice del problema però non è quasi mai Internet in sé poiché i ritirati sociali più gravi non navigano nemmeno in Rete”.

Un altro aspetto importante è che trincerarsi dietro ai “non so”, “non conosco”, “non capisco” ha creato nei ragazzi l’idea che quando si tratta di tecnologia gli adulti non sono un punto di riferimento. Tutto questo è pericoloso perché crea una sorta di autonomia illusoria.

Rifiutare a priori ciò che non conosciamo o che non è della nostra generazione banalizzandolo a una perdita di tempo, uccide la comunicazione con gli adolescenti perché sentono che il loro mondo è attaccato, svalutato e la rottura talvolta è irrecuperabile. La parola d’ordine per mamma e papà è “incuriosirsi”, cercare di capire che cosa fanno i propri figli online, entrare nell’ordine di idee che youtuber (giovani iscritti al canale Youtube su cui caricano video personali) e videogiochi (per quelli più diffusi sul mercato come Minecraft o League of Legends servono tra l’altro ottime competenze) sono nuove modalità di comunicazione. Ignorarlo significa dare loro indipendenza e autonomia nel gestire una grossa fetta della loro vita senza l’aiuto di un adulto.

I genitori dovrebbero imparare a domandare ai figli “come va oggi la vita virtuale?” con la stessa naturalità con cui chiedono “come va a scuola?”, dando al mondo dietro agli schermi il medesimo peso che danno alla realtà. Attraverso il dialogo i genitori possono arrivare a capire se c’è un problema, anche se non si possono obbligare i figli a confidarsi. Il compito dei genitori è quello di rassicurare i figli sul fatto che sono presenti e possono accompagnarli ad un uso responsabile della tecnologia, ancora meglio se con l’aiuto e l’alleanza della scuola.

ATTI AUTOLESIVI

Si tratta di sintomatologie che esordiscono, spesso, nella prima adolescenza , che in molti casi si esauriscono durante l’adolescenza perché espressione di un disagio che portato sulla pelle, alla “superficie”, viene in qualche modo, con un sostegno da parte dell’ambiente, superato. In altri casi la scomparsa della condotta specifica non viene a corrispondere ad un esaurimento delle condizioni che l’hanno sostenuta, ma piuttosto ad un loro incistamento o involuzione, che verrà ad esprimersi con varie forme compreso, in alcuni casi, il passaggio ad atti di tipo suicidario.

E’ indubitabile quindi che tale condotta rappresenti perlomeno una condizione di rischio psicopatologico da non sottovalutare. In effetti l’attuale andamento “epidemico” di comportamenti autolesionistici negli adolescenti, in particolare nelle adolescenti, sembra inserirsi nelle forme cliniche culture-bound che hanno nelle anoressie e bulimie le condizioni cliniche attualmente più rilevanti. Si è parlato, a proposito dell’incremento di tali condotte, di anoressia new age; verrebbe da dire anche, almeno apparentemente: low cost. Una guerra a bassa intensità, comunque logorante, che l’adolescente avvia con il proprio Sé e il proprio corpo nel momento in cui fisiologicamente si trova a confrontarsi con l’esigenza di iniziare a definire un’identità corporea e mentale. Condotte che l’adolescente sembra mettere in atto per contrastare il contatto con intollerabili affetti negativi, che si verifica quando emerge una rappresentazione del Sé fortemente “inadeguato”, a fronte di una rappresentazione dell’altro, dell’oggetto, scarsamente accogliente e tollerante, nonché fortemente svalutante. Il self-cutting, quindi, si propone di primo acchito come affezione della pelle, o meglio, ricordando Anzieu (1987), dell’io-pelle, evocativamente, autoimmunitaria. Una sorta di “dermatite autoimmune” che segnala il non riconoscimento, la non accettazione, di parti del sé e del corpo.

Le neuroscienze hanno confermato d’altronde quanto corpo e mente siano due aspetti della stessa sostanza[1]. Identità tra corpo e mente che trova nel cervello il suo cardine, il suo luogo di articolazione. E’ ormai patrimonio comune il dato che i cambiamenti che sperimenta il soggetto in età evolutiva nell’attraversare l’adolescenza non sono sostenuti solo dai fenomeni ormonali, ma anche da consistenti e paralleli fenomeni di trasformazione del cervello . Potremmo dire che le trasformazioni fisiche dell’adolescente riguardano il suo intero corpo a partire dal cervello. Tali trasformazioni appaiono sostenute dallo scopo di “attrezzare” progressivamente il teenager a divenire sempre più autonomo e a consolidare man mano un senso di identità personale. Sotto questo punto di vista l’esigenza di mettersi alla prova e la ricerca di novità rappresentano delle esperienze necessarie a favorire un maggiore senso di sicurezza e di padroneggiamento della realtà e del proprio corpo.

Questi aspetti possono rivestire un ruolo anche nel favorire l’accesso, di alcuni adolescenti in difficoltà, a condotte come il self cutting , sulla base di una esigenza di ricerca di novità, che in questo caso viene messa soprattutto al servizio della necessità di mettere a punto dispositivi che, contenendo l’angoscia, restituiscano un senso di controllo sulla propria minacciata realtà personale. Dobbiamo peraltro considerare, a proposito della propensione alla “novelty seeking” tipica della fase di sviluppo, che la diffusione delle pratiche autolesionistiche in adolescenza è la conseguenza della “appropriazione” di comportamenti che originariamente erano messi principalmente in atto da persone con particolari caratteristiche o in particolari condizioni (soggetti con gravi disturbi di personalità o psicosi o esposti a condizioni particolari come la detenzione in carcere ecc..) aspetto che d’altro canto è ravvisabile nei “trattamenti” sul corpo, come piercing e tatuaggi, generalmente non connotabili, come ci ricorda Lemma (2011), in senso psicopatologico.

Quando incontro Claudia, 14 anni, ella da alcuni mesi si ferisce sulle braccia con la lametta che, come spesso accade, ha svitato dal suo temperamatite. Afferma di non sapersi spiegare perché lo faccia, e ritiene di essere cambiata negli ultimi tempi, non perché si ritenga meno suscettibile di prima a critiche e rimproveri ma perché ora, quando sperimenta situazioni del genere, non le vengono “ le lacrime agli occhi” .

Sembra che la ragazza si ritenga più capace di contenere certi suoi stati emotivi dolorosi o per usare un termine mutuato dalla psicologia dello sviluppo, più competente nella autoregolazione delle sue emozioni; ma evidentemente è solo parzialmente consapevole che si tratta di un’autoregolazione patologica, che trova nel self-cutting uno strumento elettivo di pronto intervento, che la calma temporaneamente. Parzialmente consapevole, perché è stata comunque lei stessa a sollecitare e richiedere un aiuto anche attraverso il sintomo ,“marcatore somatico”  (utilizzo qui tale concetto in termini figurativi) di una persistente condizione di sofferenza. Damasio ha elaborato il concetto di marcatore somatico riferendosi a una configurazione emozionale intesa come variazione dello stato corporeo; una risposta, che diviene tipica, dell’organismo a un evento. In qualche modo è la variazione dello stato corporeo, in primis, a comunicare al soggetto ed eventualmente all’ambiente un cambiamento di cui tener conto. La tipicità della risposta corporea all’evento istituirà un meccanismo che si metterà in atto successivamente in modo automatico quando le contingenze lo richiederanno, quando si proporranno situazioni riconosciute dall’organismo come assimilabili a quella iniziale.

E’ possibile interpretare forse l’istituirsi delle condotte autolesive nell’adolescente non solo come ricerca di un sollievo alla sofferenza mentale e eventualmente una sollecitazione in tal senso al mondo esterno ma anche come una comunicazione dell’adolescente a sé stesso, attraverso il corpo, del proprio disagio. Una condizione percepibile, a volte, in maniera più netta, in prime adolescenti che giungono alla consultazione particolarmente disorientate, che non trovano facilmente pensieri e parole da associare a una condotta da cui, per certi versi, si sentono agite. L’instaurarsi del comportamento autolesivo spesso si accompagna alla ricerca di un senso dell’atto e forse di un senso di sé, ricerca che più che mai in adolescenza ha bisogno di “appoggiarsi” a quello che offre l’ambiente. “ … autolesionismo…l’autolesionismo è quando si fa male a sé stessi, quando si è depressi” affermava Claudia facendo riferimento alla biografia della nota cantante ”autolesionista”….”e puoi arrivare al suicidio, ma io a questo non ho lo mai pensato,… più che altro per i miei “ . Affermazione ambigua, quest’ultima, che segnala probabilmente in sé una negazione, in termini freudiani, e nello stesso tempo la persistenza di un legame, seppur con implicazioni regressive, nel mare magnum degli scompaginamenti adolescenziali. L’ancoraggio ai legami familiari, si potrebbe dire, per statuto dell’adolescenza, deve allentarsi. In assenza però di una relativa sicurezza di poter, almeno per un certo tempo, navigare a vista in attesa di poter individuare rotte più definite, anche approdi che sembrano non costituire una sosta e un rifornimento di un percorso soggettivante, possono essere praticati. “Sono autolesionista”, un’affermazione che mi è capitato diverse volte di ascoltare all’inizio del primo colloquio con ragazze adolescenti che presentano tale tipo di problematica. Nel primo incontro generalmente, soprattutto se non vi è alla base una richiesta esplicita dell’adolescente, non si va subito “al dunque”, ma si avvia una cauta esplorazione dell’altro alla ricerca di elementi che possano suggerire la possibilità di un’apertura. Nel contempo l’esitazione che spesso percepiamo testimonia di questa peraltro fisiologica incertezza identitaria, questa difficoltà a narrare qualcosa che ancora non è. Attraverso un’affermazione così perentoria si definisce invece, senza apparente incertezza, un’identità, denunciando contemporaneamente una mancanza, una chiusura, almeno temporanea, alla speranza di trovare in sé aspetti meno mortificati e più vitali. Non sempre però queste condotte in adolescenza sembrano rivestire questo tipo di vantaggio secondario.

Soprattutto in adolescenti più grandi qualche volta l’idea che la loro sofferenza possa rientrare in schemi, tendenze, può risultare un elemento di mortificazione che si aggiunge a quelli che sostengono tali comportamenti. Al senso di vergogna per come ci sente e si ritiene di essere visti dagli altri si aggiunge in certi casi la vergogna dello stesso gesto, le cui tracce si cerca di nascondere. Non è certo un caso che si tratti anche di un tipo di adolescenti che risultano meno disponibili ad accedere ad una relazione terapeutica e, nel caso in cui questo accada, a “darci un taglio” quando il livello di sofferenza è divenuto meno pervasivo o, nel caso in cui si determino anche lievi increspature nella sintonia tra paziente e terapeuta. Frizioni difficilmente riparabili all’interno della diade, per l’esposizione dell’adolescente a intollerabili vissuti di vergogna e di rabbia. E’ un elemento, quello della “ clandestinità”, che in maschi adolescenti che fanno ricorso a tale pratica, sembra più pronunciato. In questo caso tale condotta probabilmente viene ad essere maggiormente connotata  come una debolezza, un vissuto che, a volte, sembra compensato concretamente da una maggiore profondità dei tagli. Mi domando quanto gli aspetti ora considerati possano avere un ruolo nella frequenza significativamente maggiore con cui le ragazze, rispetto ai ragazzi, ricorrono al self-cutting .

Darci un taglio quindi con l’indeterminatezza, con la confusione, con il malessere. Come afferma Le Breton : ”Si tratta di fabbricare un dolore che argini la sofferenza” o, come in maniera altrettanto pregnante mi ha riferito un’altra giovane paziente, di “soffocare un grido”. Il taglio, come figurazione della ferita interiore e nello stesso tempo modo di cura della ferita stessa. Come incidere un ascesso e lasciar defluire i liquidi, le emozioni tossiche, negative. Si sa che, in assenza di una cura profonda, si verificheranno facilmente delle recidive. In alcuni casi la procedura potrà comunque favorire attraverso questo apparentemente paradossale meccanismo di algesia-analgesia, una delimitazione del dilagare di emozioni dolorose. “ non mi vengono più le lacrime agli occhi”, le lacrime, il pianto, segnali dal mondo dell’infanzia, di un legame regressivo con gli oggetti genitoriali. Segnali la cui percezione va interrotta, recisa, semmai sequestrata, isolata. Un incistamento che consegue allo stabilirsi di una ripetizione; un dolore che lenisce una sofferenza e che può sancire una dipendenza. Per sopravvivere al trauma il soggetto deve rinunciare a parti vitali del suo Sé, così come l’amputazione chirurgica di un arto viene a rappresentare l’unica possibilità di arrestare la diffusione di un processo gangrenoso. Il bisturi che viene utilizzato nel caso del trauma psichico è quello della dissociazione, non si dissociano solo esperienze traumatiche ma viene danneggiato, per la sopravvivenza del Sé, lo sviluppo dell’apparato percettivo-affettivo. Il sistema difensivo approntato permette il distanziamento da emozioni dolorose, ma limita le possibilità di crescita emotiva e cognitiva del soggetto sostenuto da un adeguato sviluppo della capacità di autoregolazione affettiva.

Buone capacità di autoregolazione affettiva, la Winnicottiana capacità di essere soli, non possono che svilupparsi come conseguenza di buone esperienze di eteroregolazione affettiva che il bambino sperimenta nella relazione con le figure di accudimento primarie. Per certi bambini alle soglie della pubertà, più facilmente per quelli che durante l’infanzia hanno sperimentato relazioni emotivamente scadenti con le figure di accudimento, l’ingresso in adolescenza può presentarsi esso stesso come traumatico. La restituzione sintomatica segnala il tentativo di riparare il trauma nei modi possibili, determinando il rischio di variabili gradi di automutilazione del Sé adolescente all’interno dei quali può rientrare, come difesa autarchica e pauperizzante, il self cutting.

 L’adolescente deve imparare a tollerare le angosce emergenti, a modulare e regolare i suoi stati affettivi al servizio della crescita del Sé e del suo progetto esistenziale per completare il processo di soggettivazione. In caso contrario si verificherà un arresto dello sviluppo sostenuto da una tendenza subdola o drammatica all’autodistruttività.

DISTURBI ALIMENTARI

I disturbi alimentari consistono in disfunzioni del comportamento alimentare e/o in comportamenti finalizzati al controllo del peso corporeo, che danneggiano in modo significativo la salute fisica o il funzionamento psicologico.

Negli ultimi anni i disturbi del comportamento alimentare sono nettamente aumentati in particolare nel mondo occidentale, dove l’ideale di magrezza e di linea perfetta è sempre più diffuso .  Colpiscono ogni strato sociale, con una forte prevalenza nel sesso femminile, circa il 90% delle persone affette da questi disturbi è di sesso femminile.
Insorgono generalmente nell’adolescenza ma sono in aumento anche i casi di bambini ed adulti diagnosticati con questa tipologia di disturbo.
I disturbi dell’alimentazione più diffusi sono:

  • Anoressia nervosa 
  • Bulimia nervosa
  • Disturbo da alimentazione incontrollata (o binge eating disorder, BED)

L’anoressia e la bulimia, in particolare, sono due disturbi dell’alimentazione che sono diventati molto frequenti negli ultimi vent’anni. Essi affliggono adolescenti ed adulti con conseguenze devastanti sulla salute. In alcuni casi, si è parlato addirittura di epidemia o di emergenza di salute mentale. Le persone affette da un disturbo alimentare hanno ripercussioni sulle proprie capacità relazionali, hanno difficoltà emotive, problemi nello svolgimento delle normali attività sociali, lavorative, e complicazioni mediche.

Uno dei segnali chiave è il pensiero ossessivo del cibo e la paura costante di ingrassare.
Un’altra sintomatologia comune è l’alterazione della propria immagine corporea. La percezione distorta che la persona ha del suo corpo influenza in modo non obiettivo i suoi atteggiamenti e pensieri. Questo tipo di disturbo ha un ruolo particolare all’interno della psichiatria, in quanto oltre ad interessare la mente e provocare sofferenza psicologica, coinvolge anche il corpo poiché può avere complicazioni fisiche molto gravi a carico del cuore, del sistema digestivo, delle ossa, dei denti e della bocca, fino a generare altre patologie.

I disturbi alimentari possono inoltre essere associati talvolta ad altri disturbi psichiatrici, come la depressione, i disturbi di personalità, il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo d’ansia.

Raramente le persone che soffrono di un disturbo dell’alimentazione chiedono aiuto. Accade di frequente che chi si trovi attorno riesca a cogliere alcuni segnali che aiutino la persona ad identificare che si tratti di un problema da approfondire.

Il trattamento dei disturbi alimentari dipende dallo specifico disturbo e dai suoi sintomi. Tipicamente include una combinazione tra psicoterapia, educazione alimentare, monitoraggio medico ed alcune volte assunzione di medicinali.

Durante la terapia si tiene conto anche di eventuali problemi di salute generale causati da un disturbo alimentare, che possono essere gravi o addirittura pericolosi per la vita se ignorati a lungo.

Questo approccio terapeutico multidisciplinare aiuta la gestione dei sintomi, a ritornare ad un peso salutare e mantenere la propria salute sia fisica che mentale.

La terapia psicologica è la componente più importante del trattamento dei disturbi alimentari.

Nella società attuale i disturbi alimentari interessano un’ampia fascia di persone. Accanto alle forme più conosciute (anoressia, bulimia, binge eating) si stanno diffondendo nuovi disagi che si manifestano attraverso un’attenzione eccessiva all’alimentazione corretta (ortoressia) e una ricerca esasperata del fisico atletico e muscolarmente ipertrofico (vigoressia). La richiesta di aderire ad un ideale di perfezione e bellezza, così insistentemente proposto dalla società, può incontrarsi con aspetti di fragilità personale, un’immagine distorta o negata del proprio corpo, difficoltà nel delicato processo di separazione-individuazione o una particolare costellazione di fantasie inconsce, trovando espressione in un rapporto con il cibo difficile o patologico. Crescere comporta accettare una nuova immagine di sé, la separazione dagli antichi oggetti d’amore, il superamento della dipendenza e dell’illusione di onnipotenza propria dell’età infantile. Se il conflitto necessario per portare a termine in modo ottimale la propria maturazione non può essere vissuto, l’accettazione di confini e limiti, sia intrapsichici che interpersonali, può divenire molto difficoltosa. Il rapporto con il cibo è calato nel rapporto con l’altro, a tal punto che spesso lo rappresenta. Ha a che fare quindi con dinamiche di relazione familiare, sociale, culturale, oltre che con aspetti profondi e antichi legati alle esperienze di relazione primaria. E’ per questi motivi che il trattamento terapeutico dei disturbi del comportamento alimentare dovrebbe prendere in considerazione la persona nella sua interezza, considerando la manifestazione evidente del disturbo come un sintomo che non può essere risolto senza un lavoro sulla causa che lo ha reso manifesto.

L’approccio multidisciplinare integrato a orientamento psicoanalitico ha tra i suoi obiettivi un lavoro sulla personalità del paziente e sul dolore che il sintomo esprime, la valutazione di eventuali comorbilità psicopatologiche che possono determinare notevole variabilità del decorso clinico, l’evitamento delle ricadute e dello spostamento del sintomo da una sindrome ad un’altra.

Spesso, infatti, un trattamento che miri solo alla risoluzione diretta del sintomo può risultare poco adatto per questo tipo di disturbi poiché non tiene in considerazione la struttura di personalità sottostante.

Il rischio di un approccio terapeutico circoscritto al sintomo è infatti quello di continuare a non dare un senso a ciò che attende proprio di essere significato per divenire finalmente elaborabile all’interno di una relazione.

Ogni movimento verso l’autonomia della persona passa attraverso l’incontro con il reale, con le pulsioni, con le frustrazioni, con l’impotenza, la mancanza e il limite. L’esperienza di un oggetto troppo reale e presente può rendere difficile una buona separazione e integrazione del sé e lo sviluppo di una capacità di pensare e di simbolizzare l’altro e la realtà.

Fantasie, pensieri primitivi, terrori indicibili rimangono incistati nel corpo senza riuscire a trovare un’altra forma di comunicazione.

L’approccio psicoanalitico cerca di dare voce a quanto non detto e non pensato, di rendere pensabili contenuti caotici e scissi, di elaborare vissuti legati alla trasmissione trans-generazionale, di sviluppare una capacità di mentalizzazione e di simbolizzazione che possa superare e significare esperienze sensoriali e corporee e di accedere ad un pensiero astratto in grado di tollerare l’attesa e l’assenza. Questi cambiamenti sono possibili solo attraverso una relazione con l’altro che non sia centrata sul disturbo fisico, ma che sappia mantenere saldo il rapporto, troppo spesso scisso, tra mente e corpo, con uno sguardo rispettoso sulla complessità di un problema multideterminato, caratterizzato da numerosi fattori eziologici.

Proprio la complessità del disturbo richiede pertanto una presa in carico integrata da parte di una equipe di specialisti: colloqui preliminari, un lavoro di terapia individuale o di gruppo, terapie espressive, monitoraggio dei parametri medico-nutrizionali, un supporto per le famiglie, l’eventuale ricorso ad una consulenza psichiatrica, un percorso presso le istituzioni residenziali e semiresidenziali e un ricovero ospedaliero o ambulatoriale, se necessario.

Frequentemente, infatti, i disturbi del comportamento alimentare sono in comorbilità con altre patologie o sintomi che possono renderne più complesso il trattamento (depressione maggiore, disturbi d’ansia, fobie, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi dell’umore, altre forme di dipendenza, aspetti ipomaniacali…).

Per evitare la cristallizzazione di questo disturbo risulta determinante un lavoro di prevenzione e una diagnosi precoce.

I DISTURBI PSICOSOMATICI

La psicosomatica studia il legame presente tra la parte psicologica (la psiche) e quella fisiologica (il soma). Questo perché l’essere umano è composto in maniera unitaria da entrambe queste due parti, una influenza l’altra, quindi una problematica può manifestarsi come sintomo fisiologico e/o come malessere psicologico. Quando una persona si trova in una situazione di difficoltà, questa la maggior parte delle volte è causata da un insieme di fattori che si intrecciano tra loro.

I disturbi psicosomatici fanno parte di un campo che si interfaccia sia con la medicina che con la psicologia. Questo perché va ad indagare la relazione che si viene a creare tra corpo e mente, cioè tra quello che riguarda le emozioni e quello che riguarda la parte più fisica (il soma). Se vogliamo andare a specificare ulteriormente, la medicina psicosomatica cera di trovare ed interpretare come mai la mente può avere effetti negativi anche sul corpo.

I disturbi psicosomatici vengono a crearsi, come dicevamo, a partire da un’interazione di problematiche fisiologiche, psicologiche, psicosociali e ambientali. Problemi legati ad eventi di vita, allo stress che inevitabilmente viene a crearsi a casa o sul posto di lavoro, relazioni che non sono di qualità e anzi peggiorano il proprio stato d’animo, possono acuire uno stato di affaticamento già presente. Il ruolo che le emozioni giocano in tutto ciò è fondamentale, perché esse possono creare o aggravare dei danni già presenti a livello organico.

La difficoltà che si viene a creare con i disturbi psicosomatici è che spesso la persona fa fatica a capire se si trova di fronte ad un mero problema fisico o a qualcosa di più complesso ed inevitabilmente legato ad una situazione emotiva compromessa. Si trova quindi in un momento di stress e di malessere, al quale non riesce a dare un nome o una definizione precisa, che gli crea inevitabilmente ancora più ansia e stress.

Una persona “psicosomatica” può essere così chiamata se effettua uno spostamento o una conversione: un problema di matrice psicologica viene spostato o convertito verso un malessere corporeo, che può riguardare una parte del corpo o un organo particolarmente sensibile. Corpo e mente, come abbiamo infatti detto, sono strettamente connessi, a differenza di quello che si è pensato per molto tempo. Per questo motivo la cosa migliore è quella di riuscire a sfogarsi, in particolar modo per esempio con la psicoterapia: se non si trova il modo di “buttare fuori” quello che si sente, inevitabilmente alcuni disturbi si cronicizzano.

Soffrire di un disturbo psicosomatico non significa avere un dolore “immaginario” che non ha motivo di esistere. La motivazione può ovviamente cambiare da persona a persona, ma il disturbo è reale e come tale va trattato. Tutte le malattie vanno considerate nell’ottica psicosomatica di una interazione corpo/mente. I sintomi dei disturbi psicosomatici sono una delle possibili risposte a situazioni di stress e di disagio della persona. Le emozioni, soprattutto quelle più difficili da gestire come ad esempio la preoccupazione, la rabbia, il rimorso e il rimpianto, possono tenere il nostro corpo sempre attivato come se ci trovassimo costantemente in uno stato di emergenza. Se questo succede per un tempo troppo lungo, più lungo di quanto il corpo possa accettare e sopportare, tutto l’organismo “collassa”, si trova in difficoltà.

Vi capita mai di trovarvi in uno stato di angoscia tale per cui non riuscite più a “spegnere il cervello” e questo vi causa fastidi più o meno pesanti anche fisicamente? Questo è esattamente quello che succede in queste situazioni. Ovviamente l’angoscia di per sé va a colpire gli organi che sono più soggetti a tutto ciò, più “deboli”, come ad esempio lo stomaco. Si parla di vera e propria malattia psicosomatica quando la causa è totalmente o per la maggior parte psicologica, e questa porta poi ad una problematica evidente dell’organo, compresa eventualmente anche una lesione.

Proprio per il tipo di problema che le malattie psicosomatiche pongono, ovvero l’interazione tra corpo e mente, un intervento soltanto medico, seppur assolutamente necessario per escludere problematiche serie, non può essere condizione necessaria e sufficiente in quando non approfondisce le cause a monte del problema. Per questo motivo non solo è consigliato ma è davvero importante e necessario l’utilizzo della psicoterapia. Lo psicoterapeuta infatti può aiutare il paziente a fare il percorso inverso rispetto a quello fatto inizialmente, ovvero: riconoscere che è presente una componente emotiva che causa il sintomo fisico, non solo notare che quest’ultimo è presente cercando di gestirlo solo in superficie.

Abbiamo detto che somatizzare significa spostare il problema su una parte del corpo. Il lavoro terapeutico fa esattamente il contrario, ovvero riporta l’attenzione sulla parte emozionale e relazionale del problema, cercando di capire da dove è partito per poi poter lavorare insieme al fine di migliorare lo stato emotivo. Se si riesce, assieme al terapeuta, a trovare e dare un senso ai disturbi che ci affliggono, si può provare a ritrovare il proprio equilibrio emotivo e di conseguenza il proprio benessere.

L’OMOSESSUALITA’

Il mondo scientifico a partire dagli anni 70 si è progressivamente liberato del pregiudizio sugli orientamenti sessuali diversi da quello eterosessuale: nel 1973 il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ha espulso l’omosessualità dall’elenco delle patologie psichiatriche e nel 1990 l’OMS ha affermato che l’omosessualità non è più una malattia. Gli orientamenti sessuali possono essere eterosessuali, omosessuali e bisessuali e questo fa parte della varietà, probabilmente anche con un’importante componente genetica, del modo in cui ogni individuo declina il suo interesse sessuale e amoroso. Anche se la scienza ha dato un decisivo contributo alla lotta contro il fenomeno dell’omofobia, al punto tale che oggi alcuni manuali diagnostici mettono al centro della problematica non la persona omosessuale ma quella omofobica, purtroppo non tutta la comunità scientifica è immune dal problema dell’omofobia, soprattutto nel momento in cui sta avvenendo l’inserimento effettivo delle persone omosessuali nel tessuto sociale, grazie alle unioni civili e alla possibilità di costruire famiglie. Gli studi scientifici più interessanti mostrano come l’omofobia sociale si riduca molto quando si viene a contatto con persone omosessuali. 
Da un punto di vista scientifico è preferibile parlare al plurale di omosessualità, dato che, come ci sono diverse tipologie di eterosessualità, così ci sono diverse tipologie di omosessualità e di bisessualità, ed è sempre difficile incasellare in una categoria predefinita la nostra esperienza più intima, che è quella del desiderio dell’altro.
In questa pluralità, creare categorie unificate è utile dal punto di vista descrittivo ma non da quello scientifico, dal momento che, per esempio, le omosessualità maschili e femminili sono molto diverse tra loro e sono il prodotto di aspetti psicologici, sociali, familiari ambientali e anche di tipo biologico e genetico, per cui è preferibile usare il termine varietà al posto di quello di diversità.
Nel corso della storia le omosessualità hanno incontrato modi molto diversi di tolleranza o di intolleranza, ma la grande novità della fine del secolo scorso è stata il loro divenire un elemento pubblico e l’acquisizione di una dimensione di rivendicazione di diritti e di uguaglianza nella differenza. Questo ha portato la persona omosessuale a diventare cittadino o cittadina, grazie alle leggi emanate per rendere possibile il riconoscimento del legame affettivo tra persone dello stesso sesso.

IL  SUICIDIO

Il comportamento suicidario comprende 3 tipi di azioni auto-distruttive:

  • Suicidio portato a compimento: atto autolesivo, che esita nella morte;
  • Tentativo di suicidio: atto che intende essere auto-distruttivo, ma che non esita nella morte, poiché l’azione era incerta, vaga o ambigua;
  • Atti suicidari: gesti che comportano un’azione con un potenziale letale molto basso (es. infliggersi ferite superficiali ai polsi); hanno un valore prevalentemente comunicativo.

I tentativi di suicidio e gli atti suicidari implicano ambivalenze riguardo la volontà di morire e possono rappresentare una richiesta di aiuto da parte di persone che desiderano ancora vivere.

Di solito, i comportamenti suicidari derivano dall’interazione di molteplici fattori.

L’elemento di rischio primario è costituito dalla depressione. Possono predisporre al comportamento suicidario anche i fattori sociali (es. delusione e perdita), le anomalie della personalità (es. impulsività o aggressività), le esperienze infantili traumatiche (es. famiglia separata, perdita dei genitori, abusi e violenze) e le malattie psichiatriche.

I tentativi di suicidio sembrano essere più frequenti, in particolare, tra i pazienti con disturbi d’ansia associati a depressione maggiore o disturbo bipolare. Alcuni pazienti schizofrenici sono inclini al suicidio a causa del disturbo depressivo a cui sono predisposti.

In qualche caso, il suicidio rappresenta l’atto finale di un comportamento autodistruttivo indiretto, cioè caratterizzato dall’esposizione ripetuta e spesso inconscia, a rischi potenzialmente letali senza l’intenzione di morire, ma con effetti in grado di rivelarsi alla fine autodistruttivi. Questo è il caso di alcolismo, abuso di droghe, automutilazione, guida imprudente, fumare molto, sovralimentazione e comportamenti antisociali violenti.